29 gennaio 2008

Into the wild (Sean Penn, 2007)

Into the wild, nelle terre selvagge del cinema, negli spazi ineluttabili delle immagini, nei fotogrammi sospesi e nei costrutti analitici del correlativo oggettivo; nel tempo dissolto e ricomposto, nell’attimo morente, nei sogni lasciati, nel viaggio urbano di un autobus dov’è stato sufficiente cancellare il dintorno. Questi erano i miei pensieri appena uscito dalla sala. Dovevo riordinarli, lasciare che il film si svolgesse e si consumasse nella mia mente, non più esterno ma interno. Difficile esprimere un’opinione appena dopo una sola visione. Il film andrebbe rivisto per mirare meglio, per riorganizzare il discorso. Innanzitutto la narrazione è divisa, spezzettata, articolata e dipendente dalle immagini, la narrazione è una sincope o meglio, un correlativo oggettivo, così come determinato da Eliot e ripreso nelle poesie da Montale, una serie di eventi, situazioni, oggetti, costrutti, dispiaceri, desideri trasformati in qualcosa che va oltre la metafora. Infatti mentre la metafora è un metasemema prodotto dalla soppressione e aggiunzione di semi, ove siamo davanti a due significanti identici ma due significati diversi (1), il correlativo oggettivo è una forma simbolica che implica una “assenza” dell’io narrante e presuppone un processo di oggettivazione narrativo(2), trasformando i sentimenti in oggetti concreti. Le immagini risentono molto di questa presenza pregnante: gli oggetti (paesaggi “incontaminati”, artefatti umani, volti, sguardi, incontri) sostituiscono il lirismo dell’io narrante oggettivando l’io narrante tormentato e sofferente. In sintesi: il lirismo lascia il posto all’immagine. L’immagine da sola deve sopportare il peso della significazione. Ma in che modo si sviluppa questo percorso analitico e immaginifico? Sean Penn utilizza vari sistemi (non semplici da analizzare dopo una sola visione). Per sintetizzare ne prenderei in esame almeno tre: a) voce over/off; b) scriptum/post scriptum; c) campi/controcampi dimensionali.
A) La voce over di Carine McCandless (3) e quella off di Christopher feriscono le immagini, amplificano l’oggettualità (ciò con cui ho relazione), sottolineano la forza espressiva della visione. Una semantica dell’immaginario. Ma tutto questo si amplifica perché va ad imprimere il proprio sigillo sul tempo. Innanzi tutto il sapere si sprigiona attraverso la voce over di Carine che “racconta”, spiega il passato, ciò che è successo prima della laurea e dell’Alaska; alla voce off di Christopher invece il compito di sottolineare il viaggio, le letture, le citazioni, di aprire il mondo non come se visto da una finestra (o attraverso una finestra – cinema) ma come se fosse visto dentro la finestra. Carine, quale narratore extradiegetico (potrebbe essere addirittura un narratore onnisciente) in realtà non conosce le regole del presente, non conosce gli eventi, può solo definire il passato. Ampliando il discorso: il cinema può solo ricostruire e riciclare? Può invece semplicemente sognare? La storia vista attraverso gli occhi di Carine è coniugata al passato, è incompleta, possiede una conoscenza parziale dei fatti e sono fatti che possono solo informare. Ma corrispondono al vero? Christopher ha veramente vissuto e provato ciò che veniamo a sapere da Carine? L’altra voce è quella di Christopher, ci informa dei suoi desideri: libertà, silenzio, solitudine, felicità, letture, il richiamo della foresta, London, Tolstoj, Thoreau; una voce che ci trascina, ci lascia senza respiro, s’inerpica in alto, attraversa fiumi, osserva il cielo. Il sapere di questa voce off è meno prosastico, più poetico, ma corrisponde al vero? Forse no, perché nell’epilogo la voce si spegne, si addormenta, muore. Ma rimane il segno, rimangono il diario e le frasi scritte, colate dallo schermo, colate dai paesaggi, dalla luce, persino dal cielo ferito. In realtà sorge il dubbio che questa voce possa anch’essa essere over (appartiene veramente a Christopher? O è la voce di un’istanza assoluta, innominabile?).
B) Scriptum/Post scriptum. In realtà ritengo che questo aspetto sia come una terza voce (una voce scritta), ossia un altro narratore. Questa voce scritta sono le parole che gocciolano dallo schermo, si soffermano sul diario, si accatastano sui libri, anche quando devono definire l’arrivo ineluttabile della morte. I nomi delle cose (bisogna dare un nome alle cose) possono anche essere velenosi. Il cinema è un veleno che va preso a piccole dosi. Ma questa voce scritta non è univoca: le pagine sui libri, le didascalie che scorrono sulla tela dello schermo sono integrate e contraddette da una voce del post-scriptum (il diario di Christopher, le sue parole scritte sui libri, il suo viaggio intarsiato sul cuoio della cintura, ecc.) che non fa da contraltare agli scripta ma è anche integrazione (aggiunge dati) e integrità (forma un’unione di parole). Il post-scriptum rappresenta il bisogno di annullare persino la storia per affermare il lirismo dell’io (reso magnificamente tramite il correlativo oggettivo).
C) Campi e controcampi dimensionali. Anche le immagini si dividono, lo schermo potrebbe non contenerle (split screen?), si spezzettano, si velocizzano, rallentano, vanno a scatti. Le immagini sono simmetria: C1) esseri umani spesso in primo piano o addirittura primissimo piano, mentre nient’altro o poco altro riesce ad entrare nel quadro. Queste immagini mostrano i dettagli, il sudore, la sofferenza, gli sguardi, la falsità che solo una lente d’ingrandimento può scavare nei pori trovandovi una caterva di acari galleggianti. Sono immagini che inquietano: l’uomo è sull’orlo della catastrofe, sia che apra attività, si laurei, faccia cinture di cuoio, mieta il grano, si tuffi nelle rapide, parli danese o mangi una mela biologica come quella di Eva. C2) La natura, il mondo, i cieli sono in campo lunghissimo, gli insetti ad esempio appaiono solo per corrompere la carne, i vermi fluttuano nel rosso succo sotto il fogliame per corrompere la speranza (la carne macellata dell’alce). Per il resto campi lunghi, lunghissimi, vedute dall’alto, quasi cartine topografiche e vedute dell’alto, vedute del cielo. Un discorso particolare sui cieli nuvolosi o aperti, azzurri, azzurro grigio. Sono cieli impuri, feriti, cieli che neppure l’Alaska può salvare, cieli che ho conosciuto in Godard perché spesso solcati dalle scie abbandonate dagli aerei. Cieli feriti dall’uomo, ovunque: nelle terre selvagge (In the wild) e non nei cieli selvaggi. L’aereo (nato quasi insieme al cinema) contamina e ferisce il cielo (divide anche l’immagine di un cielo ed è uno split screen interno o una sutura che lega due porzioni di cielo), deprime la vista. Christopher vedrà cieli impuri. Due strutture, due punti di vista: il vicino e il distante;l’immensamente vicino (ma non tanto perché non si arriva a vedere il micron) e l’immensamente distante (ma non tanto perché non si arriva a vedere la distanza coperta dalla velocissima luce). Le immagini sono perturbanti, si scoprono e si coprono per fuggire. Cercano di non farsi prendere. Il cinema non può riprendere la purezza perché, nel momento stesso che una mdp lo fa, ha già violato la sacralità dei luoghi e il cielo ferito piange e allaga, l’acqua diventa neve o si scioglie ingigantendo i fiumi. Le rapide non sono un gioco ma un confine invalicabile. Quando si è giunti al termine del viaggio, quando l’autobus è al capolinea, si scende e viene voglia di tornare indietro e, non avendo superato confini lo facciamo mestamente. Torneremo a casa e racconteremo degli sguardi incrociati, silenziosi, e della debolezza dei sogni. Ma se dovessimo superare il confine non potremmo tornare più. Christopher supera un confine senza saperlo. Potevamo immaginarlo, ma chi l’avrebbe detto che un innocuo rigagnolo sarebbe diventato un fiume arrabbiato? Nessuna voce, nessun cielo, nessun luogo può cancellare il confine. Uscire dal fotogramma è vietato e Christopher, pur con i limiti e con gli errori e con l’incompetenza e l’ingenuità del neofita, non può trovare comprensione. Perché c’è un altro tipo di immagine: inquadrare la scrittura. Non è una novità, molti registi lo hanno fatto. Ma qui accade spesso: l’immagine della scrittura è un dettaglio, d’altronde per leggere bisogna mettere occhiali che ingrandiscano o usare una lente. Le parole, i nomi delle cose (4), vanno visti ingigantiti, ancora non si vedono gli acari ma ci manca poco. La scrittura definisce il mondo, limita il reale, innalza steccati, doma il cavallo selvaggio. Definire un paesaggio è già limitarlo. Rimane solo il silenzio. Ma il cinema è una scrittura che limita il suo paesaggio, limita perché sceglie ed effettua una selezione della realtà, prende il suo profilmico, eliminando e scartando tutto il resto. E dov’è allora il silenzio delle parole, degli sguardi, delle immagini. Into the wild? No. Non in to the wild, ma nell’atto stesso di provarci, sbagliando per mostrare i limiti intrinseci dell’uomo, ma anche della scrittura (in particolare del cinema). Into the wild è anche un film sulle terre selvagge del senso. L’Alaska è il senso che non può nutrire chi non ha fatto una scuola di macelleria, ma può farsi afferrare (anche se per pochi attimi) da chi proprio non ha fatto una scuola di macelleria.




(1)La metafora è una figura retorica prodotta dalla soppressione e aggiunta di semi. È grazie alla parte non comune che si manifesta l'originalità della figura. Per esempio, nella celebre affermazione di Pascal "l'uomo è una canna pensante" i sememi "uomo" e "canna" hanno in comune il sema della fragilità e non in comune il sema del pensiero. (http://www.bolognadue.it/angelorizzi)
(2) Nel correlativo oggettivo l'io empirico del poeta tende a scomparire dal testo, per lasciar posto a personaggi e oggetti, la cui natura costituisce un equivalente simbolico della condizione interiore del poeta, della sua concezione del mondo. Un esempio da una poesia di Eliot: “La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri, / Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri / Lambì con la sua lingua gli angoli della sera, / Indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli, / Lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini, (Da Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock (1917), Thomas Stearns Eliot)
(3) La voce over di Carine McCandless è tale solo se ammettiamo che Carine è al di sopra della vicenda. Ma Carine appare nella diegesi all’inizio del film. Solo nell’incipit o nei flash-back peraltro commentati dalla stessa Carine. Questa voce narrante mostra pertanto tutta la sua ambiguità. Voce over (extradiegetica) o voce off (diegetica)? Concordo di considerare per la vicenda in corso la voce di Carine come extradiegetica e pertanto voce over, ma rimane il dubbio.
(4) “Si trattava di immagini false anche per un’altra ragione: perché erano, per forza di cose, molto semplificate; certamente, ciò a cui tendeva la mia immaginazione e che, nel presente, i miei sensi percepivano in forma incompleta e senza piacere, io l’avevo racchiuso nel rifugio dei nomi […] ma i nomi non sono molti capienti”. Marcel Proust, Dalla parte di Swan, Oscar Mondatori, 1987 p. 470.

25 gennaio 2008

Crash (David Cronenberg, 1996) - 3/3

3 - Osmosi del romanzo nel film (Crash di J.G. Ballard, 1973)

L’epilogo del romanzo è rivelato nell’incipit. Sin dalle prime pagine James Ballard, ossia un narratore autodiegetico (Crash è “raccontato” tutto in prima persona) introduce subito il vero personaggio principale, che è il collante dell’intero romanzo. Lette le prime pagine potremmo rimettere il libro sullo scaffale perché gli aspetti semantici del plot si esauriscono tutti nella stupenda descrizione della fine di Vaughan. Tutto quello che capita dopo è come un’unica improrogabile incommensurabile analessi che ricostruisce gli eventi. L’incidente automobilistico, orrore per tutte le persone che si reputano ragionevoli, diventa per coloro che hanno oltrepassato il confine estremo della speranza e si sono inoltrati nel limbo fluido del mondo morto (e l’autore velatamente forse infierisce sulle classi sociali più benestanti di un Regno Unito pre-thatcheriano, non ancora funestato dalle crisi economiche e dalla disoccupazione che raggiungerà livelli apocalittici negli anni ’80), diventa un nuova frontiera da raggiungere e attraversare. L’orrore della lamiera contorta, che taglia la carne e recide la vita o la riduce ai minimi termini, si innesta nel fiacco ritmo delle infedeltà coniugali, nelle esperienze sessuali extraconiugali praticate dai personaggi. Ma il sesso è rimasto nudo, spogliato dalle emozioni, privato di quegli aspetti erotici e passionali che contribuiscono a dare valore a una relazione. Tradire e fornicare non è più una trasgressione, ma una normale operazione quotidiana. Sarà l’incidente occorso all’io narrante, James Ballard, a cambiare le cose, perché sarà questo il motivo legato a una catena di altri motivi che trascineranno gli eventi fino all’ultima, ossia alla prima pagina. Seppur con una focalizzazione interna (ma inserita nell’anallessi e quindi, come lettori situati nel futuro dell’intreccio conosciamo l’epilogo, anche se non ne conosciamo i presupposti) possiamo intraprendere questo percorso che oserei definire pittorico, questa ricerca di una perfetta fusione estetica dell’uomo con la macchina. Detto così sembra uno dei tanti romanzi sull’uomo macchina, sull’androide, sugli innesti, il cyborg. Invece ritengo che la “fusione” sia più estetica che carnale. In ogni pagina sono presenti i motivi per cui vi è un rinato appagamento sessuale dei personaggi. L’appagamento però non è determinato dal masochistico desiderio di fare sesso con chi è rimasto segnato nel corpo dagli incidenti. Da una lettura meno approfondita sembrerebbe quasi che Ballard, sua moglie Catherine, la Dott.ssa Remington, Gabrielle e soprattutto Vaughan non siano altro che depravati impotenti capaci solo di godere attraverso il dolore della ferita e la perversione della cicatrice. La realtà mostrata attraverso il punto di vista di J.Ballard (che è facile indicare come il punto di vista dell’autore J.G.Ballard) è una realtà costruita attraverso forme geometriche e prolungamenti del naturale attraverso l’artificiale. Ogni curva del corpo femminile (ma anche maschile) ogni parte intima o particolare anatomico del corpo (mani, occhi, volto, orecchie, gambe, vagina, pene) sono visti attraverso rapporti con le parti metalliche e/o viniliche dell’auto, in modo da creare un’immagine univoca, di fusione armonica tra corpo e artificio.

“[Vaughan] Con il pollice […] indicò il bordo cromato del finestrino e la sua congiunzione con l’elastico ultrateso del reggiseno della giovane donna. Per un capriccio fotografico, l’uno formava con l’altro una fionda di metallo e nylon, dalla quale sembrava proiettarsi da sé, nella mia bocca, il distorto capezzolo.”(1)

In tal modo vengono create nuove forme che naturalmente deturpano il corpo umano (le forme più esaltanti sono create durante il crash vero e proprio), ma anche lo nobilitano, in quanto il corpo diventa supporto fisico del vissuto (una sorta di DVD masterizzato). Un’estetica del flusso continuo che attraversa la vita in tutte le sue forme o, se vogliamo, un’estetica di nuove armonie nate con la tecnologia, una sorta di body-art. Ma non è semplicemente questo. Non potendo esaurire un’accurata analisi nello spazio solitamente utilizzato in un post, devo sintetizzare. I nuovi rapporti di carne e tecnologia intesi come aspetti artistici, come nuove forme non stigmatizzabili, non sono sufficienti, proprio perché le nuove forme non nascono da una somma (macchina + carne), ma da una sottrazione. Non basta prendere due amanti pieni di cicatrici e riprendere i loro amplessi in un abitacolo incidentato, abbandonato in un deposito della polizia, per vedere le nuove forme. Bisogna invece intendere non la forma compiuta, fredda, realizzata, ma la forma che si sta formando, una forma dinamica, in fieri, protesa a deformarsi nell’atto stesso della sua formazione. Semplificando: bisogna descrivere, osservare il momento stesso dell’impatto, vedere il rapporto lamiera-vinile/carne, liquidi meccanici (olio motore, antigelo)/liquidi organici (sangue, sperma, urina). E’ durante l’impatto che si ha, per un attimo, la fusione totale e la formazione della Gestalt (2) vera e propria che sottrae l’integrità del corpo. Il sesso interviene ad un altro livello. Interviene quando chi porta sul suo corpo la rappresentazione della fusione subita si unisce, preferibilmente in una scenografia d’auto deformate, con un altro corpo “fornito” degli stessi requisiti. In pratica il ricordo della dinamica viene trasposto nell’atto sessuale, definendo un nuovo tipo di erotismo. E’ la stessa cosa che succede al pubblico estasiato davanti a un quadro: l’atto estetico nasce di fronte a un quadro che ha i segni del suo vissuto, visto da un pubblico che è predisposto e porta in sé gli stessi segni. Quindi i liquidi hanno la loro importanza, sono metafora del fluire della vita e delle emozioni, ma anche incarnazione della vita liquida (ma non voglio soffermarmi sui temi del romanzo). Lo spazio del romanzo riflette in pieno questi presupposti. E’ uno spazio nuovo, che potremmo dividere in due:
1) uno spazio della distanza che rappresenta il serpente contorto e freddo e allo stesso tempo vivo perché in esso pulsa un sangue metallico e lucente (i nastri argentati delle autostrade che James Ballard vede in lontananza dall’alto del suo terrazzo). Questo spazio è l’aspetto più freddo e meno preoccupante, ma in realtà e il più spaventoso, perché ci mostra l’uomo e la macchina in campo lunghissimo visti come piccoli ingranaggi di un serpente artificiale che pulsa e scorre ininterrottamente. Ma è sufficiente che una sola cellula del nastro argentato si blocchi (che un incidente ostruisca un’autostrada) affinché il mostro evidenzi la sua orribile inutile rappresentazione.
2) uno spazio intimo di cui ho già detto, ossia una conformazione carne/macchina/sesso, un amplesso visto da una distanza ridottissima, microscopica, quasi cellulare, dove ogni sentimento ogni pulsione viene registrata. E’ nello spazio ridotto che J.G. Ballard secondo me scrive le pagine migliori:

Catherine vomitò sul mio sedile. Questa chiazza di vomito, coi suoi grumi di sangue simili a rubini liquidi, viscosa e discreta […] continua a possedere per me l’essenza del delirio erotico dello scontro automobilistico – più eccitante del suo muco rettale e vaginale, altrettanto raffinata dell’escremento di una regina delle fate o dei globuli di liquido addensati a lato delle bolle delle sue lenti a contatto. In questa magica polla, sorta dalla sua gola come una scarica di fluido dalla bocca d’un tempio remoto e misterioso, io vidi il mio riflesso: specchio di sangue, seme e vomito, distillati da una bocca i cui contorni avevano fino a pochi minuti prima aspirato senza posa dal mio pene.(3)

Il tempo, a parte l’epilogo posto nell’incipit, sembra fluire regolarmente. Il romanzo è suddiviso in capitoli cronologici (questo aspetto è stato sfruttato bene nel film) che si susseguono senza particolari traumi. Ma c’è un altro tempo che aleggia tra le pagine di Crash. E’ il tempo sensibile e impercettibile dell’attimo eterno, dell’instancabile ricerca di una perfezione estetico-sessuale che dovrebbe trovare l’apice nell’orgasmo e in particolare nella generazione del seme maschile. Ma questo tempo (e questo aspetto secondo me è la parte più interessante del romanzo) non soddisfa, non emerge in pieno, proprio perché l’attimo è irreversibile, il seme esce ma rimane su una mano, o viene espulso dall’organo femminile per via della gravità. Insomma l’insoddisfazione rimane sempre anche inoltrandosi nell’infinitamente piccolo.
Altro aspetto è il cinema. J.G. Ballard ha voluto mettere in evidenza l’aspetto cinematografico del romanzo, ha mostrato come queste deformazioni siano possibili solo attraverso la mediazione di due arti: cinema e fotografia. Mentre il cinema riesce a mostrare l’evento da una distanza abissale (pur avvicinandosi ai particolari) senza congelare l’attimo, né fermare il tempo che tutti attraversano (anche inconsapevolmente), la fotografia (Vaughan ama fotografare le vittime dell’incidente dall’inizio alla fine, ossia da quando vengono prelevati dai medici e dai vigili del fuoco dall’auto incidentata, fino alla convalescenza) invece riesce a semplificare e immortalare i vari attimi, gli ictus della storia, restituendoci tutta l’angoscia e l’orrore dell’evento, perché la fotografia congelando l’immagine, ci restituisce la morte in atto. Ma questi sarebbero altri aspetti da approfondire magari in un prossimo post perché mi sto dilungando troppo.


(1) J.G. Ballard, Crash, Feltrinelli UE 2004 – p. 92
(2) Wikipedia: Per la psicologia della Gestalt non è giusto dividere l’esperienza umana nelle sue componenti elementari e occorre invece considerare l'intero come fenomeno sovraordinato rispetto alla somma dei suoi componenti: "L'insieme è più della somma delle sue parti"
(2) J.G. Ballard, Crash, Feltrinelli UE 2004 – p. 15-16

21 gennaio 2008

Crash (David Cronenberg, 1996) - 2/3

2 - Corpi liquefatti

Nulla può sostituirsi alla liquefazione (1) dell’individuo nella società moderna. L’irreversibile processo porta a una trasformazione, nel senso di assorbimento multiforme, dell’individuo. Per essere più chiaro, rifacendomi al concetto di modernità liquida di Zygmunt Bauman, l’individuo vive in una concezione di spazio e tempo che non gli permette di intessere rapporti solidi, ma solo di afferrare le occasioni (lavoro, sesso, formazione) come momenti di misurazione del proprio successo. Il "tempo" agli albori dell’era moderna era un "tempo" legato allo spazio (quindi una velocità) mentre nella modernità fluida il tempo domina lo spazio proprio perché il tempo è diventato istantaneo, permettendo l’equivalenza di ogni luogo in rapporto al tempo per raggiungerlo. Mentre prima si aveva v=s/t adesso si ha s/t (per t tendente a zero) = ∞ , ossia la liquefazione dello spazio e la liberazione del tempo come unico canone di valutazione della propria identità. Detto in altro modo, nell’epoca della modernità fluida, passato e futuro non hanno valore, ma conta solo l’istante. Bauman si domanda che senso può avere una società dove si dà continuamente importanza ad un perpetuo carpe diem. Crash di Cronenberg (e anche, come vedremo, il romanzo di James Graham Ballard) segue proprio la ricerca dell’attimo perpetuo, dove ha valore il momento eterno. La decostruzione del mondo è avvenuta, ma il mondo non ha retto allo smontaggio, liquefacendosi; e non si può neppure tornare indietro perché, ammessa la possibilità di restituire spessore al liquido, ci troveremmo davanti a un nuovo “mondo solido”. Crash ci mostra comunque solo l’inizio della liquefazione dei corpi. Un po’ di tempo fa (prima di A History of Violence) mi ero immaginato infatti che Cronenberg sarebbe arrivato a mostrarci in un suo film proprio lo squagliarsi irreversibile del corpo, per evidenziare l’estasi innaturale del non ritorno. Forse il regista ha cambiato strada, ma ritengo che Crash sia un film che segni in maniera indelebile questa possibilità. Crash è l’inizio del processo fluidificante, ma non solo. Crash è anche una ricerca onirica degli effetti del cinema e del suo sviluppo. Mi spiego meglio: Crash mostra pezzi solidi che galleggiano come frammenti sfuggiti alla deriva della società, anzi alla deriva del cinema post-moderno, pezzi di cinema di una volta quando il mondo solido che lo circondava permetteva al cinema di essere mitico. La sequenza dello spettacolo organizzato da Vaughan (cinema) davanti a un pubblico di amanti degli incidenti (cinefili?) è esaustiva. Vaughan ricostruisce davanti al suo pubblico l’incidente in cui James Dean perse la vita entrando nel mito. Si può dividere la sequenza in tre parti principali o forse meglio dire in tre motivi legati: introduzione, crash e epilogo. Nell’introduzione Vaughan presenta lo spettacolo che il pubblico (tra cui James Ballard ed Helen Remington) si appresta a vedere seduto su una tribuna improvvisata. La mdp inquadra Vaughan che accarezza l’auto mentre parla al microfono davanti a un uditorio “specializzato”: “Non ti preoccupare quel tizio ci vedrà senz’altro. E queste sono state le ultime fiduciose parole della giovane e brillante star di Hollywood James Dean mentre alla guida della sua Porsche Spider 550 andava incontro al suo appuntamento con la morte….”. La voce di Vaughan tradisce una particolare eccitazione che lascia trasparire il suo “feticismo per la lamiera tagliente” e infatti questa sequenza potrebbe essere vista anche come metafora di un coito, ma un coito post-moderno dove non c’è posto per un rapporto pelle/odori/corpo ma solo lamiera/puzza d’olio bruciato/corpo. Ad ogni modo mi limito qui a sottolineare il gioco metacinematografico della sequenza ben strutturata da Cronenberg. Nell’introduzione la mdp ci mostra i movimenti di Vaughan con brevi carrellate laterali (Vaughan è mostrato spesso in piano americano se non addirittura in primo piano, colto nell’attimo di carezzare l’auto con mani e corpo). Ma Vaughan non carezza la Porsche di Jeames Dean, perché ormai la Porsche è entrata nel mito, carezza invece l’altra auto quella con cui “si farà male” perché è la vera causa del suo dolore e del suo orgasmo. Queste immagini sono raccordate con alcune riprese in primo piano di James Ballard ed Helen Remington, ossia degli spettatori ideali di questo tipo di cinema, spettatori fluidi, capaci di supportare/sopportare il dolore di questa nuova arte che può soltanto testimoniare la deriva della Storia. I due sono visibilmente eccitati. La parte centrale, il crash vero e proprio, dura pochissimi secondi (circa 15). Ecco la sequenza del crash:
1) dalla Porsche (soprannominata da Dean “Little Bastard”) si vede la Ford Tudor Bianca che sta venendo incontro (7 secondi);
2) dalla Ford Tudor si vede la Porsche che viene incontro (un secondo);
3) primo piano di Vaughan che recita la parte del meccanico di James Dean, Rolph Wütherich, e dello stuntman che recita la parte di James Dean alla guida della Porsche n. 130 (meno di un secondo);
4) primo piano del fianco destro della Ford Tudor (si sta spostando sulla destra incontro alla Porsche) guidata dall’altro stuntman che recita la parte dello studente Donald Turnupseed; il fianco è visibile in primissimo piano sulla parte destra del fotogramma, mentre sulla parte sinistra si vede la Porsche in campo medio (comunque situata al centro dell’immagine); ancora più a sinistra del fotogramma è visibile la campagna (meno di un secondo);
5) sul lato sinistro del fotogramma in campo medio si vede la grossa Ford Tudor e sul lato destro la piccola Porsche ormai coinvolte nel crash; Little Bastard si deforma nell’urto (meno di un secondo);
6) ritorno alla precedente prospettiva ossia vista del fianco destro della Ford Tudor che urta la Porsche e prosegue la sua corsa fermandosi sull’altro lato della carreggiata, uscendo fuori strada(6 secondi).
Il punto di vista dell’incidente è molteplice, infatti lo spettatore adotta di volta in volta lo sguardo di Vaughan, poi quello dello stuntman della Ford, e infine di un’altra istanza che non è neppure il pubblico interno al film, perché la prospettiva delle due auto che si urtano di lato è quella onnisciente di un pubblico ancora più distante (siamo noi cinefili?). Questo “stile” di ripresa ci riporta al 30 settembre 1955 (come dice Vaughan), giorno della morte di Dean, ma Vaughan subito dopo la data non definisce l’ora (“L’anno, il 1955. Il giorno, il 30 settembre. L’ora, adesso”). Il mito di Dean esce dalla storia ed entra nell’Adesso del film, ma l’Adesso del film è sì presente al mio sguardo mentre lo vedo, ma è anche un tempo passato dove tutto è già accaduto. E siccome il Reale non può entrare nel film, Cronenberg ci mostra la ricostruzione dell’incidente di James Dean filtrata dalla famosa corsa di Rebel Without a Cause. Non è il mito di Dean in quanto persona fisica coinvolta in un incidente, ma il mito di Dean in quanto persona deceduta e consegnata al mito perché integrata in un certo tipo di cinema e usata dallo star system. La citazione del film di Nicholas Ray (non citato ma “ricostruito”) entra di prepotenza nel mondo liquido di Crash acquisendo significati diversi in quanto fuori dal suo contesto e dalla Storia, trascinandosi dietro la gara pericolosa tra Jim Stark e Buzz, e influenzando Crash stesso. Rebel Without a Cause è solo mostrato attraverso una rappresentazione della “reale” morte di James Dean. Per pochi attimi (quei quindici secondi dell’urto) il mondo classico sembrerebbe innestarsi nell’oggi, interagendo in un circuito di rimandi e citazioni nostalgiche tipiche delle immagini senso-motorie. Il film del ‘55 non è citato, ma solamente rappresentato attraverso la citazione del mito (quindi star system, Hollywood, cinema, ecc.), di un mito che si è tra l’altro formato attraverso una mancanza. Ossia la liquefazione dei sentimenti non entra in sintonia diacronicamente col film (paragoni col passato, nostalgie, “oh quant’era meglio 50 anni fa, grande cinema!”, “grande attore! noi oggi possiamo solo…”, ecc.ecc.), ma sincronicamente, dato che Rebel Without a Cause è ormai una frase fatta innestata nel desiderio post-pornografico di scolpire la carne, e la rappresentazione liquida dell’incidente (liquida perché non c’è sofferenza e/o dialettica del sentimento, ma solo uno sciamare di azioni e desideri clonati) serve semplicemente a sopravvivere senza attraversare il tempo.

(1) Zygmunt Bauman, Modernità liquida

17 gennaio 2008

Crash (David Cronenberg, 1996) - 1/3

1 - Eversione della cicatrice.
Il film è un percorso di conoscenza che comporta seguire un sentiero erto e ostico, pieno di trabocchetti e pericoli, un sentiero difficile e faticoso che non dà niente in cambio e non porta da nessuna parte. Sempreché si accetti di lasciarsi trascinare dalle immagini, è una strada che conduce inesorabilmente a scoprire il disgustoso sapore del Nulla. C'è l'incontro e il tentativo di mostrare ciò che per Bazin non era possibile mostrare, perché ritenute entrambe oscene, ossia la pornografia e la morte (1). La morte al lavoro (non quella dei vivi che muoiono ma dei già morti che vivono) che annichilisce dall'interno una condizione di felice oblìo e porta inesorabilmente alla scelta di una libertà: poter morire. La pornografia intesa (non vi sono immagini pornografiche) come l'aspetto più astratto dell'Eros, ossia l'Eros che si piega al quotidiano, che entra nelle pieghe della disperazione quotidiana; non l'Eros dei morti, ma quello imponderabile dei vivi, quello intimo che "viola" la sua natura. In altre parole l'Eros non ha un abbrivo, non si realizza, ma rimane vagamente "consegnato" negli atti e nei gesti, congelato nel tempo, senza possibilità di redenzione. Il sesso era una volta il tema della vita, unico racconto possibile, oggetto di desiderio e speranza, oppure forza interiore (vittoriosa o perdente non importa) nella lotta/contrapposizione con Thanatos (la morte intesa come morte fisica, ma anche morte interiore, sconfitta della vita e resa al flusso immondo degli eventi). Ma qui non c'è una redenzione. L'arte, il cinema, consacrano l'impossibilità di comprendere la Storia; possono solo compenetrarla, trasferendo gli stilemi propri del sesso su un altro piano semantico (un'analogia dell'osceno?) I codici del sesso e dell'amore vengono privati del supporto connotativo (piacere e affetto) sostituiti da un altro supporto semantico. Dall'incontro delle due uniche vere tematiche narrative dell'arte, nasce un ibrido, nasce l'invenzione dell'uomo, nascono la tecnologia, la Macchina. Sorge il rifiuto del lato umano. Umano non come umanesimo, come affermazione di valori, ma come condizione amorfa dell'uomo che diviene oggetto massificato, manovrato e catalogato dal potere. Da questo incontro nasce una maieutica del sesso, una libertà non controllabile: e non è la libertà del Romanticismo, l'amore disperato di un Novalis, e neppure la forza dirompente di un amore libero (fate l'amore non fate la guerra), ma è la disperata consapevolezza che solo l'accettazione della macchina può liberarci dalle ferree regole della prospettiva. In altri termini: Thanatos non viene cercata, ma sfidata, e lo scontro non può che portare a dei risultati indelebili: cicatrici, amputazioni, suture. Il corpo tagliato dalle lamiere contorte dal "crash" è il risultato dell'affronto. La morte non è una gloria ottenuta o una sofferenza, ma un bisogno. Ormai per sfuggire al controllo del potere (e qui per potere intendo quello dei cliché e dei luoghi comuni che generano e "guidano" consenso e gusto) non rimane che la tecnologia da usare per "tagliare" la carne morbida della diegesi e formare un nuovo tessuto cicatrizzato: l'arte in senso lato e il cinema in senso ristretto. Crash è un film "immondo" perché ci mostra quello che non è possibile mostrare, ossia l'intollerabile oscenità baziniana della porno-morte o meglio, secondo la logica del post-moderno, ci mostra l'Eros post-mortem, perché Crash è un film post-osceno. Un film che quando uscì scatenò infinite polemiche e venne demonizzato non solo dagli "addetti ai lavori", ma anche da politici e giornalisti di tutto il mondo. Eversivamente bello.




(1) "Senza dubbio nessun istante vissuto è identico agli altri, ma gli istanti possono somigliarsi come le foglie di un albero; di qui proviene il fatto che la loro ripetizione cinematografica è più paradossale in teoria che in pratica: l'ammettiamo nonostante la sua contraddizione ontologica come una sorta di replica oggettiva della memoria. Ma due momenti della vita sfuggono a questa concessione della coscienza: l'atto sessuale e la morte. L'uno e l'altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l'istante qualitativo allo stato puro. Come la morte l'amore si vive e non si rappresenta [...] o almeno non lo si rappresenta senza una violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità." André Bazin, Che cosa è il cinema? Garzanti p. 32

13 gennaio 2008

A proposito di Nanà (Vivre sa vie)

Questa è la mia vita (Jean-Luc Godard, 1962)

Amore e morte, luce ed ombra, bello e sublime acquistano senso solo nell’espressione artistica e nella coscienza dello spettatore, quindi lungo la linea dell’informazione che collega opera d’arte e fruitore. All’interno del mondo, invece, sono esperienze inverosimili, nel senso che non sarebbero comprensibili secondo le regole del cinema classico. Per Godard il vero non è verosimile e la morte “non è la morte grandiosa del cinema di guerra, degli Aldrich, dei Fuller, in cui l’attore ha tempo per dare addio al mondo e per indirizzare un ultimo birignao allo spettatore. È la morte vera, improvvisa, stupida”(1). La morte di un personaggio, ad esempio, non avviene nel sintagma, l’inquadratura che segue non serve a completare il senso dell’inquadratura che precede. La morte si trova dentro l’istante, non è costruita prima né viene rievocata dopo. La morte spettacolo la si va a vedere al cinema, piangendo per il destino avverso del protagonista. In Vivre sa vie Nanà entra in un cinema dove si proietta La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. Nella sequenza citata da Godard Antonin Artaud annuncia alla Falconetti la sua prossima morte e i primi piani dei due attori s’intrecciano ai primi piani di Nanà mentre i sottotitoli del vecchio film diventano i sottotitoli del film in corso. La morte annunciata a Giovanna d’Arco s’incolla, tramite una didascalia del film di Dreyer, al primo piano di Nanà. La morte sarà una liberazione per Giovanna-Nanà. L’idea di morte che la famosa sequenza di Dreyer trasmette, colpisce l’immaginario dello spettatore-Nanà. Le lacrime scivolano sul suo volto come già stanno scivolando sul volto della Falconetti. Questa sequenza è il negativo dell’ultima, il dodicesimo quadro, che inizia con un ragazzo che legge a Nanà un racconto di Poe (Il ritratto ovale). I dialoghi sono privi di sonoro, con i sottotitoli che indicano le battute. I sottotitoli non annunciano nessun evento di morte; caso mai sono questi stessi (riportando alla mente la citazione della Giovanna d’Arco) rappresentazione della morte. È come se Nanà non fosse mai uscita dal cinema e i suoi primi piani avessero continuato ad intercalarsi a quelli della Falconetti e di Artaud oppure come se Godard abbia indugiato tra una morte “classica” e una morte qualsiasi, inutile, imprevedibile. Imprevedibile come la morte di Nanà che sopraggiunge senza avviso quasi cogliendoci di sorpresa, senza preparazione e rimanendo sospesa nel frame-stop finale: l’immagine bloccata di Nanà distesa per terra, accasciata ai piedi dell’auto, immobilizzata, congelata nell’attimo stesso, senza tragedia, senza dramma, né ellissi. Il pianto è tutto per l’annunciata morte di Giovanna d’Arco, perché Giovanna d’Arco è la Storia. Per Nanà invece un attimo come tanti, più insignificante di tanti, più insignificante di uno sguardo al cinema atto a incrociare quello di una Santa condannata a morire sul rogo. Il cinema diventa più reale della realtà. Allora soltanto la potenza del Falso potrà “smontare” l’idea di morte sublime tanto cara al cinema classico. Caso mai è un’ulteriore citazione (in una delle ultime inquadrature del dodicesimo quadro) che può essere considerata un “segno” dell’imminente fine di Nanà. In una delle ultime inquadrature del film la macchina da presa (probabilmente dal punto di vista di Nanà) inquadra, posta all’interno dell’auto guidata da Raoul, i boulevards cittadini che scorrono ai lati dell’autovettura: l’Arco di trionfo, il traffico, e la fila che si è formata davanti ad un cinema dove si proietta Jules e Jim di François Truffaut. L’epilogo tragico di Jules e Jim (Catherine guida la macchina giù da un ponte morendo annegata insieme all’inconsapevole Jim), tragico ma improvviso, quasi stupefacente per la sua assurda inconsistenza, fa presagire l’imminente identica fine di Nanà. Ancora una volta sarà la citazione (ma stavolta è citazione di cinema “moderno”) a dare il "la" al “tragico” epilogo della vita di Nanà. Anche il cinema moderno, dunque, non riesce a rendere la mancanza di senso del mondo. La morte di Catherine (in un certo senso simile a quella di Nanà e a quella del poliziotto di À bout de souffle) non basta a rendere l’assenza di senso insita nella morte, non basta a stabilire l’ingresso nell'interno dell’attimo. Jules e Jim è già “proiezione in atto”, cinema, è già nella memoria dello spettatore e la morte di Catherine è già evento tragico. Nanà invece sta per morire adesso. Prima ancora di entrare nella memoria dello spettatore, è già morta nello spettacolo (prima al cinema con Giovanna d’Arco e poi nell’ultima sequenza quando appare la locandina di Jules e Jim), e quando infine muore nella “realtà”, per un attimo la morte “vera, improvvisa, stupida” prende il sopravvento. Ma tutto questo non può bastare a Godard. Per Godard nel cinema “l’immaginario e il reale sono nettamente separati eppure sono una cosa sola”(2). Anche Vivre sa vie sarà una citazione in potenza e la morte di Nanà sarà un po’ meno stupida, un po’ meno improvvisa e un po’ meno vera.


(1)Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, p. 110
(2) J.L. Godard, Il cinema è il cinema, p.235

9 gennaio 2008


Settima Arte mi ha nominato giorni fa nell'ambito dell'iniziativa del Thinking Blogger Award 2007. Si tratta di un premio virtuale a cui possono prendere parte soltanto coloro che sono stati nominati da altri blogger . Adesso sta a me nominare altri 5 blog. E sono già in ritardo, perché Deneil (anche lui nominato da Settima arte) ha già fatto le sue nomination e i suoi nominati hanno fatto le loro nomination. Così il "virus" si sta già spandendo tra tutti noi e questo non può farmi che piacere, perchè, lo ammetto, appena mi sono messo a pensare alle nomine da fare mi sono completamente bloccato. Infatti dovrei nominare tutti i blogger che frequento, perché ognuno è speciale per le sue peculiari caratteristhe, per il modo tutto originale di "parlare" di cinema (attualmente sto frequentando solo blog di cinema ad eccezione di tre blog sulla scrittura che ho linkato qui sul pannello di destra). Sono inoltre lusingato della nomina da parte di Mario (di settima arte) e inoltre ho scoperto di essere stato nominato anche da C'era una volta il cinema che ringrazio sentitamente. Ecco cosa devono fare i nominati:

1)inserire il banner del thinking blogger award
2)linkare il post originario
3)stendere la lista dei propri cinque candidati
I miei candidati sono circa una ventina di blog che frequento da almeno tre mesi, tra un anno forse ce ne saranno di più. Tra questi venti devo però prenderne 5, ma credetemi, per me sono tutti allo stesso livello:

Ciaksicinema: mi piacciono le sue impressioni, la sua voce delicata (almeno così la immagino), e le sue frasi asciutte e semplici che rendono l'idea di un film. Leggendola mi sembra di essere al cinema e penso alla pittura di Monet.

Cinedrome: mi piacciono le sue recensioni di film appena usciti, ma anche di vecchi film classici, mi piace il suo vintage d'annata da cui sprigiona un profumo di mosto e mi ricorda, quando lo leggo, la pittura di Hopper.

Delirio cinefilo: la sua scrittura è sconvolgente, appassionante. Io lo leggo tutto d'un fiato per afferrare il senso dell'attimo fuggente che riesce a ispirare nel lettore. Quando entro nel suo blog è come entrare in una mostra dadaista o new dada, in particolare penso a Rauschenberg.

Movie's Home: il suo stile è stimolante, mi serve a formare nuove immagini, immaginarmi altre metafore, una struttura surreale, magica e il cinema è magia. Mi rammenta la pittura di Magritte un pittore amato anche da Dome.

Mr.Davis: mi piace il suo modo di scrivere asciutto e trovo interessanti le sue opinioni, la sua prospettiva, che spesso non coincide con la mia, ma che mi arricchisce. E' come trovarsi davanti a un quadro del Sernesi.
Gli esclusi non me ne vogliano ma anche per loro potrei esprimere le mie impressioni e rivelare il tipo di pittura che mi ispirano, perché naturalmente i miei non sono giudizi o etichette, ma solo un modo di esprimere le emozioni che provo quando leggo e quando leggo immagino e vedo soprattutto immagini pittoriche.

8 gennaio 2008

Stasera siete tutti invitati al Korova Milk Bar

L’ingresso è inquietante perché ci aspetta il primo piano del volto truccato di Alex che sin dal primo fotogramma ci guida, anche con la sua voce over, e ci introduce nel suo mondo folle e violento. Ci spiega subito di cosa si tratta, ossia violenza e droga, apologia del male che viene presentato naturalmente attraverso il candore delle immagini. Al Korova si beve latte, non whisky e superalcolici, anche se “rinforzato con qualche droguccia mescalina”. Ma il latte è bianco, candido, è una bevanda soffice. Ecco… sinceramente credo che siamo entrati in un bar mica male, attraente. Vi sono i Droogs Dim seduti in fondo al bar, vestiti di bianco, tutto all’opposto dei punk che conosceremo negli anni ancora da venire e differenti dalla “gioventù bruciata” e dai figli della beat generation che abbiamo lasciato da poco alle nostre spalle. Alex è un mito. Un occhio truccato e uno no, uno sguardo angelico. Le sue parole che inneggiano alla violenza sono dette con voce pacata, serena. Il mostro è entrato nell’ordinario. Il mostro non spaventa, l’angelo caduto è rimasto bello. La bellezza possiede anche la faccia nascosta del male (ma che qui si sta svelando). Può il male attraversare l’etica e fondersi nei modi gentili, frequentare le belle cose, apprezzare l’arte, rintuzzarsi davanti all’orrido? Ma, fatto sconvolgente, può il bene apparire mostruoso? Il primo piano dell’incipit suggerisce che siamo entrati nella banda di Alex, siamo i suoi Droogs Dim. Alex ci accompagnerà nella nostra discesa all’inferno (1) dove dovremo lavarci l’anima. Sicuri di venire al Korova Milk Bar? Sembra un ambiente invitante, ma già la musica di Purcell (Music for the Funeral of Queen Mary) spostata da un contesto alto (la messa) a uno basso (il bar) ci avverte che stiamo per entrare in un girone da cui potremmo non uscirne. Ci vestiamo elegantemente. Un cappello in testa, Alex porta sul capo una bombetta blu notte (forse unico neo), poteva essere bianca, perché è scura? Ha un occhio truccato e porta un bastone che rappresenta modi di fare eleganti (bastone e bombetta come sinonimo di ombrello e bombetta cosa ricorda?), un bastone che sarà usato poco dopo come arma, ma per ora no, siamo dentro la prima sequenza e l’arma sarà usata poco dopo, ma dentro questa immagine no. Ormai siamo stati accalappiati. Siamo tutti immobili seduti davanti ai tavoli che sono sculture raffiguranti donne nude con le gambe aperte; gambe e braccia sono i piedi dei tavolini. Queste sculture si ispirano alle pin up di Allen Jones, appartenente alla pop-art, e vogliono rappresentare l’erotismo, diffuso dalla pubblicità delle copertine patinate delle riviste, che negli anni sessanta diventa un bene di consumo, l’erotismo consumato come una bibita bevuta al bar, o come un’auto sportiva lanciata per le stupende (libere) strade degli anni sessanta. Queste pin-up portano scarpe con tacchi a spillo, slip, parrucche, fruste, corpetti, ecc. ispirando appetiti sessuali; sono donne come le vorrebbe l’uomo medio e come le vorrebbe rappresentare la pubblicità. Allen le presenta senza remore e falsi pudori, da artista, alla mercé del pubblico. Presenta a tutti non il male, ma il male che potrebbero ispirare. I tavolini del Korova Milk Bar sono nudi. Seduti davanti a questi tavolini ci siamo noi, immobili come manichini. Abbiamo ai piedi donne schiave, o come le vorremmo, ma noi siamo più schiavi di queste pin up pronte ad amarci; la fissità dei nostri sguardi che osservano il vuoto, pur in un museo d’arte contemporanea (perché il Korova è anche un museo), non riescono a vedere altro che la propria inutilità. Questo ambiente degradato, immobile, dove domina lo sguardo della nostra paura, dove Alex sembra dare un ordine, è già l’incubo del Fuori, ossia Alex è solo un ingranaggio. Siamo dentro e contemporaneamente fuori. Il Korova Milk Bar è il nostro limite, se entriamo non ne usciremo fuori, perché è il nostro fuori personale. Avete bevuto il latte drogato dell’apparenza? Bene, siete dentro il Fuori.(2)

(1) Rimbaud, Una stagione all’inferno.

(2) “Di fronte al contrasto fra prospettiva intradiegetica della voce ed eterodiegetica delle immagini, l’incipit dell’Arancia meccanica non ci dice quale sia la prospettiva dominante: il commento di Alex o il distacco crescente della visione?” Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick, L’arancia Meccanica, p. 48 Lindau



La foto di destra rappresenta tre pin up di Allen Jones


 

5 gennaio 2008

La promessa dell'assassino (David Cronenberg, 2007)

Davanti ai deschi imbanditi del ristorante gestito da Semyon, appartenente alla fratellanza militare Vory V Zakone, un cantante intona Oci ciornie (occhi neri), una triste e bellissima canzone russa. Questa l’ultima strofa: Occhi neri infuocati di ardore / mi attirano verso paesi lontani / dove regna l'amore / dove regna la quiete / dove non esiste sofferenza / dove l'odio è vietato. La promessa dell’assassino potrebbe essere un film sull’amore? E sul rapporto tra cruor e sanguis, tra il sangue versato che macchia la carne e colora di sfumature rosse una Londra bagnata e impalpabile, e il sangue che scorre nelle vene e che, affiorando alla superficie, si mescola con l’inchiostro nero/violaceo dei tatuaggi? Un rapporto tra la carne che sente e quella che è sentita, fisicità dell’essere e fisicità dell’irrealtà di una Londra distante e distratta, quindi una simmetria dei colori fisici del corpo/film e del fuori/profilmico?(1). Potrebbe essere l’amore per la conoscenza e l’illusione di non essere dimenticati, che si incarna nella voce off della ragazzina morta dalla quale apprendiamo il suo dolore e la sua delusione per quello che credeva il paese dove regnano l’amore e la quiete e dove non esiste sofferenza e l’odio è vietato. Ma la canzone viene cantata nel ristorante di Semyon, tempio del male, inferno della carne e dell’anima dove la violenza delle passioni viene lasciata ai margini, perché domini la glaciale tranquillità dell’ordine delle cose. Il male affiora sui sorrisi di Semyon come nei colori intensi e debordanti dei cibi della cucina russa, mostrato sulle addobbate e decorate tavole ove commensali di un’alta società non definita (sono tutti appartenenti alla Vory o sono ricchi borghesi della City?) siedono davanti ai deschi dei cibi e della vodka versata a fiumi. Il male è la normalità fredda delle bimbe innocenti che suonano il violino, lo sguardo eccitato e patetico di Kirill che ama/odia il padre/padrone o è la calma apparente dello sguardo di Nickolai, infiltrato buono ma non troppo che per non scoprirsi (obbligato da Kirill) non esita a prendere con la forza una giovane ucraina oggetto-carne, divertimento dei gangster? Oppure è il rimpianto di Anna, il desiderio di Anna di colmare la perdita di un bimbo mai nato attraverso le cure e l’interesse per la sorte della piccola Christine, nata nel giorno della morte della sua giovanissima madre russa? Mi pongo tutte queste domande perché il film, sotto la sua apparente semplicità narrativa, nasconde un’immensa forza che amplifica il senso del suo stesso sviluppo. Il film di Cronenberg non è un film "normalizzato" che si discosta dai precedenti (ma già l’intento era iniziato con History of violence) perché tratta temi più “comprensibili”, ma è un film che si sviluppa a vari livelli: estetici, narrativi, simbolici che ridurrei per semplicità a tre. NARRAZIONE: ossia due plot principali che s’intersecano, attraversando le immagini e i colori: a) il racconto della ragazzina morta di parto, narratore che accettiamo in quanto mostrato nei due momenti canonici del cruor dell’incipit del plot (l’emorragia e la bambina cosparsa del sangue perso dalla madre), racconto che s’interseca e si esplicita per mezzo dei vari lettori del diario e/o dei loro gesti o movimenti o parole (soprattutto Anna, ma anche Nickolai e in parte lo zio Stepan e persino Semyon); b) l’evento mimetico che si dipana “semplicemente” davanti ai nostri occhi, apparentemente limitato dall'intreccio; c) i vari plot secondari (Anna e il bambino perso, l’impotenza di Kirill, il passato di Nickolai) che interferiscono con la linearità temporale, destabilizzando la narrazione prevista (Anna vuole scoprire la verità per la verità o per la sua “bambina” ri-nata? Kirill fa uccidere per punire chi lo ha offeso o per offendere il padre che lo ha punito umiliandolo attraverso lo stupro della quattordicenne ucraina? Nickolai lavora per la giustizia o per dare senso alla sua morte avvenuta a quindici anni?). Tutti questi “significati” finiscono per annullarsi suscitando un surplus di senso che esplode nell’immagine finale del bacio quale indice definitivo non della nascita, ma del tramonto dell’amore. In tal modo Cronenberg mette il sigillo allineando corpi non nel senso di attrazione ma di repulsione (Nickolai se ne va abbracciando Kirill, suo amico, capo e incubo). DISCORSO: ossia affinché il sanguis esca nel Fuori diventando cruor bisogna scegliere la sua apertura. Come formare una struttura che aderisca alle forme del genere, ma anche che non aderisca ai cliché dello stesso genere? a) Aumentando la forza dello Spannung(2), limitandosi a non clonarlo lungo le varie sequenze, (lo Spannung in effetti è sempre singolare, mai plurale), e limitarlo all’incontro della sauna, momento importante che determina una svolta; b) allargando le scene e le pause (immagini di tavole imbandite, la moto che percorre le strade piovose di una Londra “assente”, la sequenza con le minorenni fino al momento dello stupro di una ragazzina “assente”…). In particolare nella sauna, sul corpo nudo di Nickolai, sul corpo insanguinato dai tagli dei coltelli (unici oggetti ammessi perché il proiettile non apre, ma buca), il rosso rubino si mescola al nero violaceo dei tatuaggi formando un nuovo tipo di corpo: un meta-corpo che parla di sé con i simboli incisi sulla pelle e con il sangue estratto dalle vene. Appunto scegliere l’apertura. Nel segno come il significato “trasporta” aperture per far uscire il sapore dell’evento, così il significante “trasporta” sequenze sempre aperte che ci rendono il senso indefinibile della sofferenza. IL MOSTRO: inteso come formazione di una “realtà” aliena (sentita come tale) montata da pezzi di realtà, ossia il mostro è il cinema. Ecco, Cronenberg con questo film è riuscito a farmi sentire la mostruosità del reale forzando la narrazione attraverso l’uso costante e “urticante” di corpi aperti (come corrispettivo nel mondo della carne di quello che nell’idea sono le “menti aperte”), è riuscito ad emozionarmi facendomi sentire sulla pelle la pressione mostruosa degli eventi e l’impossibilità di dominare e controllare questi eventi. La forza di questo film è la possibilità di farci sentire deboli perché in fondo durante la visione non abbiamo fatto altro che perdere sangue.


(1) "Affermata l’unitarietà della carne, quale unica trama sensibile che informa la realtà del mondo e quella del corpo vissuto, Merlau-Ponty individua però una differenza tra la carne del corpo e quella del mondo, poiché soltanto la prima è insieme sensibile e senziente. Ciò equivale a dire che mentre la carne del mondo “è eminentemente percipi”, quella del corpo è percipere, nel senso che è il sensibile cardine nel quale si compie l’iscrizione di tuti gli altri. Per questa peculiarità essenziale, il corpo è definito come “misurante universale”, “Nullpunkt di tutte le dimensioni del mondo”. (Merleau-Ponty – Filosofia, esistenza, politica, a cura di Giovanni Invitto, p. 69, Guida Editori).
In questo senso concordo con quanto detto da Chimy nella sua recensione del film.
(2) Usato in narratologia (il sostantivo in tedesco è femminile), significa tensione e corrisponde infatti, nell'ambito del reticolo narrativo, all'acme espositivo, cioè al momento culminante della vicenda

2 gennaio 2008

Cotton Club (Francis Ford Coppola, 1984)

Cotton club, anche se non sembra, è un film sperimentale, è il tentativo, quasi del tutto riuscito di formare un cinema trans-classico, ossia un cinema che, attraversando l’epoca del cinema classico ci porta direttamente, tramite il moderno, nell’era del postmoderno. E Coppola svolge questo compito non attraverso il linguaggio formale, mostrando il film in fieri o facendo leva sulla deissi, ma attraverso un’intenzione “narrativo-attanziale” che sia trasportata dalla musica. La musica è l’aspetto che dà ritmo al film, che trascina gli eventi e li disturba o li realizza. In tal modo si può affermare che il film è un musical e un gangster-movie, una storia d’amore e un melodramma, un film sociale e storico: quindi ibridazione diretta e organizzata dal ritmo musicale. Il Jazz suonato dai grandi jazzisti neri degli anni venti e ballato da ballerini di colore si mescola e si trascina nel ritmo incessante delle pallottole che scheggiano in ogni dove, sparate dai revolver dei picciotti mafiosi. In un incessante e trascinante scorrere di immagini, suoni e rumori (i dialoghi sono quasi abbandonati a se stessi) il film si trascina verso l’epilogo lasciando nella mente un’eco memorabile di quei tempi. Ecco, io mi immagino l’epoca proprio in quel modo. E non importa se non era così, o se lo era in maniera differente. Importa invece che le sfumature “musical-gangsteristiche” danno forma all’immagine di un’epoca che fu insieme traumatica e mitica, drammatica e superficiale. Il linguaggio classico consunto e logoro viene come rinfrescato da Coppola attraverso una grandeur di mezzi ed effetti speciali (il film costò circa 47 milioni di dollari). Un film tradizionale che mostra il passaggio del potere da una criminalità organizzata di origine soprattutto europea, alla potente e nascente malavita italiana. Il proprietario del Cotton è l’irlandese Owney mentre l’olandese Dutch è il boss del racket. Costoro saranno ben presto soppiantati da Lucky Luciano (che nel film agisce nell’ombra). Si è detto spesso che il film è un perfetto meccanismo simmetrico: neri che cantano e ballano e hanno successo ma che non possono entrare nel locale (ma c’è anche il bianco Dixie che suona la tromba), due fratelli bianchi e due fratelli neri, una coppia bianca e una nera, le due donne hanno in comune di essere legate a chi le mantiene e solo nell’epilogo si convertono all’amore, due sodalizi tra gangster. In altri termini è lo stile melodrammatico che domina nel film (almeno analizzandolo da un punto di vista narrativo): morti drammatiche, l’amore che vince, l’onore del malavitoso (Lucky Luciano) che sconfigge il gangster di vecchio stampo (volgare e crudele). Il film è ambientato in un’epoca a cavallo tra gli anni venti e trenta durante la grande crisi del ’29 e il locale è il mitico Cotton Clunb di Harlem dove il jazz dei neri poteva finalmente avere una ribalta di lusso e un pubblico (rigorosamente bianco) che li applaudiva. Il club contribuì a rendere famosi jazzisti come Fletcher Henderson e Duke Ellington , nonché dopo il 1931, Cab Calloway e infine Jimmie Lunceford. Partendo dal ritmo musicale di una colonna sonora che non lascia tempo di respirare Coppola riesce a creare una grande e unica ritmica (ma anche metrica?), dove il cinema mostra la sua stessa grandezza, ossia la capacità di prendere storie, eventi, situazioni per immortalarle nell’immaginario collettivo, costruendo ex-novo il respiro di un’epoca. Grazie alla colonna sonora di John Barry (tra cui i bellissimi brani di Duke Ellington quali “The Mouche”, “Cotton Club Stomp”, “Mood Indigo”) il film acquista un suo senso totale, e la musica diventa come un collante che ci trasporta nel magico mondo del cinema fino al suo epilogo, fino al momento in cui il Cotton Club si apre a un fantasmagorico mélange di Verosimiglianza (che non è il Reale) e Vero (che per me non è l’effetto di Reale), cinema hollywoodiano e rivista di Broadway, costumi dell’epoca, stazione ferroviaria e treno dove sale la coppia di bianchi. In questo finale il cinema si riappropria della sua essenza, mostra l’uscita dallo spettacolo del Cotton Club e il suo mondo di gangster, donnine, cantanti neri, picciotti, per entrare in altri spettacoli, per raccontare altre storie (il treno come metafora di un nuovo inizio, di una nuova vita). Cotton Club è metacinema riuscito non nel mostrare gli strumenti del suo formarsi (senza rimanere nell’immagine come spesso fa il cinema moderno), ma nel forzare la narrazione, nell’impostare il racconto come forma astratta (nel senso di estrarre) da una meravigliosa koinè(1) cinematografica.

Post Scriptum. "La mia idea - una piccola idea - era di realizzarlo usando lo stile teatrale degli show che si allestivano allora al Cotton Club, mettendoci dentro, magari qualche scheggia 'dadaista' alla Man Ray. Da un lato, quindi, l'elemento drammatico (come uscire dall'asservimento sfruttando l'unica arma che si ha: il talento), dall'altra l'aspetto musicale, ricreato con un supporto maniacale, miscelando le orchestrazioni dell'epoca con i sosia di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong". (Francis Ford Coppola, intervista a l'Unità, 23 dicembre 1984).

(1) Mi si scusi la forzatura nell’uso del termine