31 dicembre 2008

Il Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia (1469-1470)

I tre livelli essenziali della città o meglio della sua rappresentazione scenica scandiscono la vita mondana e/o quotidiana della Ferrara di Borso d'Este, riflettono la sintesi prospettico-ideologica di un Rinascimento funzionale non utopico, ma, topico in quanto "[...] il tema funzionale e concreto predomina sull'astrazione, la topia prevale sull'utopia" (1). Questo aspetto della rappresentazione, oltre a restituire la memoria della vita quotidiana ferrarese del XV secolo, restituisce sinteticamente le immagini della vita cittadina, quasi come sequenze giustapposte sulle pareti del Salone dei Mesi. Questa sono divise in più zone ognuna delle quali è dedicata a un mese dell'anno ed è ripartita orizzontalmente in tre fasce che scandiscono le scene dipinte. In basso trovano posto immagini riferite alla realtà della vita di corte ai tempi di Borso D'Este; nella fascia centrale sono raffigurate le "astratte figure astronomiche", è questa la zona dedicata ai segni zodiacali; infine nella fascia alta del "mese" prendono posto le divinità pagane, gli Dei dell'Olimpo che osservano a distanza le ferventi attività umane. Purtroppo soltanto sette dei dodici campi (i mesi da Marzo a Settembre) sono più o meno leggibili, mentre gli altri sono irrimediabilmente rovinati. Non intendo analizzare nei particolari queste meravigliose opere dei vari pittori dell'Officina ferrarese (Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti nonché altri maestri di cui non conosciamo il nome), sia perché vi sono molti studi particolareggiati di esperti e studiosi sull'argomento tra i quali emerge il già citato lavoro(2) del compianto e illustre Prof. Ludovico Zorzi, sia perché il ciclo di Schifanoia mi interessa da un punto di vista che non attiene tanto alla Storia dello Spettacolo, quanto all'idea di suddividere il ciclo in mesi (tempo) e i mesi in tre ordini orizzontali (spazio). Il Salone dei Mesi è un’opera suddivisa in dodici quadri, dodici capitoli, oserei dire dodici macro-sequenze che concorrono a scandire il “passaggio” del tempo. Il Salone dei Mesi è una storia che scorre attraverso le stagioni della vita di corte e della vita cittadina, descrivendo l'operosità di artigiani, contadini, mercanti, come anche le attività ludiche. Ad esempio nel Mese di Aprile domina l'inserto del Palio di San Giorgio in cui gareggiavano aristocratici su destrieri, ragazzi su asini, corridori a piedi tra cui due donne, pertanto nobili contro plebei, purosangue contro asini o semplici umili appiedati. I personaggi si trovano in effetti contemporaneamente coinvolti nella corsa, sintesi (anche se si tratta probabilmente del palio derisorio in cui si umiliavano prostitute, ebrei, e plebe) dei quattro pali dedicati a San Giorgio (corsa di cavalli), San Paolo (corsa delle putte), San Romano (corsa dei putti), San Maurelio (corsa delle asine). Inoltre "la libertà della concezione spaziale consente all'esecutore un rovesciamento prospettico, secondo il quale le dimensioni dei cavalieri in corsa risultano inferiori a quelle dei cavalieri fermi in secondo piano" (3) in quanto le figure di Borso e della corte devono sovrastare, "con intento espressionistico, la fila sgranata dei concorrenti" (4). L'importanza del personaggio che assiste al palio, il Duca, è evidenziata attraverso la maggiore dimensione; l'interprete principale, il divo, non è la folla scomposta e disordinata dei partecipanti alla gara, bensì il pubblico regale capeggiato dal Duca, unico vero interprete (e committente) del testo che stiamo leggendo. La corsa del palio è il contorno oggettuale che non è l'origine dell'evento (così come non lo è la veduta di città in cui si svolge il palio stesso) ma la "catalisi", il riempitivo che viene utilizzato per sottolineare il gesto e la presenza del Duca Borso D'Este. Nella fascia inferiore della vita mondana il fulcro intorno a cui tutto ruota è il Duca, forza centripeta in quanto volontà creatrice e organizzatrice dell'evento. Ma la descrizione pittorica del Palio di San Giorgio non è soltanto un evento definito e luogo deputato incasellabile nella fascia della vita mondana, ma è anche una “casella”, appunto un inserto mostrato a distanza e delimitato da due quinte improvvisate (a destra un arco tronco, a sinistra l’arco di un portico). Si tratta pertanto di rappresentazione nella rappresentazione? Mi soffermo sul Mese di Aprile perché mi sembra il più interessante del ciclo. Nel secondo ordine dell’affresco tripartito troviamo i decani, ossia divinità egiziane legate ai segni zodiacali e ovviamente il toro, appunto la costellazione del mese di aprile. Nella parte alta è rappresentato il trionfo di Venere il cui carro, che scivola sulle acque del fiume, è trainato da due cigni. Sopra il carro, inginocchiato davanti a Venere, troviamo Marte appena sconfitto dalla dea dell’Amore. Sul prato vicino al fiume si muovono conigli e un gruppo di giovani dialogano, alcuni si abbracciano e iniziano ad amoreggiare. Come afferma Zorzi “[…] dal mondo sensibile della realtà, riprodotto in uno spazio fisico concreto, si sale, attraverso il cielo profondo della seconda sfera in cui si stagliano le astratte figure astronomiche, al mondo ultrasensibile della irrealtà olimpica, dove i corpi e i paesaggi acquistano una trasparenza metafisica” (5). Questo esempio del ciclo di Schifanoia mostra uno spazio-tempo concentrato in un’unica visione e in particolare mostra contemporaneamente la scena della realtà (quella voluta e desiderata dal potere del Duca) collegata alla sua rappresentazione più o meno “verosimile” (la scena teatrale del Palio di San Giorgio), la scena simbolica del tempo e del mistero che si staglia sopra le attività umane (i decani allo stesso tempo demoni e figure astratte dello zodiaco) e la scena ideale a cui tende o vorrebbe tendere lo spirito umano, ossia la vittoria dell’amore sulla guerra in un mondo già pacificato. Quindi laboriosità e sua rappresentazione, mistero e spiritualità. Il tutto montato in un’unica sequenza, contemporaneamente, che il cinema potrebbe definire come uno split-screen scorrevole in cui le immagini dei vari mondi, si allineano, si intersecano, si sviluppano e concorrono alla formazione non soltanto di una storia (l’ordine basso della Verosimiglianza) ma di un’aspirazione conformata, di una tendenza culturale che può attraversare un’epoca o almeno uno spaccato di mondo. Il mese osservato come unità, come opera intera, formata dalle parti, non appartiene soltanto all’ordine del Duca e al desiderio del Potere (controllo sul mondo, veggenza come desiderio di conoscenza, aspirazione all’ordine), ma anche alla capacità dello sguardo che riesce a sintetizzare in un’unica visione la parcellizzazione dei vari momenti topici. Pertanto il mese diventa un pre-cinema (mi si scusi la forzatura) che tenta di sviluppare contemporaneamente una storia e la sua rappresentazione (il pubblico, il palio), una tendenza ideale a qualcos’altro che diventa immaginario e irrealizzabile (una pace che trionfa secondo le regole) e infine il codice misterioso, quasi demoniaco, che probabilmente, nessuno (neppure il Duca) possiede. La conoscenza passa attraverso queste prove, anche attraverso uno split-screeen che non convoglia cronaca e racconto ma esprime la tendenza a manipolare questa cronaca attraverso la definizione di una volontà.

(1) Ludovico Zorzi, Ferrara: il sipario ducale in Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino 1977, p.7.
Leggo sul Dizionario Battaglia, UTET vol. XXI p. 27: Tòpia. Pergola. "Voce di area settentrionale e, in particolare, piemontese, ligure, lombarda ed emiliana, dal latino topĭa , neutro plurale 'giardini artificiali', che è dal greco τόπιου 'campo', derivato da τόπος (v. Topos)". Ritengo che Zorzi intenda il termine nel significato di luogo "comune" ma nel senso greco di campo, nel senso di luogo fisico reale.
(2) Ibidem.
(3) p. 11.
(4) Ibidem.

21 dicembre 2008

La felicità porta fortuna (Mike Leigh, 2008)

Mentre la felicità regolata dalla legge presuppone una conformità a uno standard etico riconosciuto politicamente e socialmente (benessere, diritti, uguaglianza, ecc.) per garantire ma anche impedire una incontrollabile invasione della propria sfera "etica" e/o spazio-temporale, quella provata da Poppy è "felicità" proprio perché non definibile, non comprensibile, non ottenibile tramite una semplice e statica imitazione. Anzi il dinamismo offerto dall'apparente stato semi-incosciente della protagonista, contrasta con la statica accettazione degli eventi da parte degli altri personaggi (anche di quelli che sembrano controllare il proprio mondo come Tim). Gli altri non vengono contaminati dalla forza pura della concreta astrazione; concreta in quanto Poppy interviene nel flusso della vita (consigli agli altri, i problemi del bambino, l'abbozzo di una storia con l'assistente sociale), astratta in quanto la ragazza riesce a trasferire su di sé tutta l'energia che il mondo non restituisce più, arrivando ad esempio a "vedere" oltre l'apparente afasia del vagabondo (un meraviglioso dialogo che nasconde sotto le righe la forza prorompente della poesia, capace di portare la sua violenza organizzata alla norma). Gli altri si limitano a distanziarsi ed esternare le proprie divergenze perché, troppo presi dal loro ritmo prosastico, non comprendono la polisemia, né le cesure, non sanno quando sospendere il senso (e la voce) e quando invece si deve correre sul verso per giungere d'un baleno all'ultimo lemma. Gli altri non capiscono perché tanta euforia, perché tanta energia, perché tanto mistero. Il mondo di Poppy sorge su altri lidi, segue un sentiero dinamico e pluridirezionale, non è una proiezione su un piano cartesiano, ma è un'immagine olografica che si proietta nel vuoto. E se la norma del mondo di Poppy è una Inghilterra in cui non ci si diverte in discoteca o ci si ubriaca per anestetizzare il dolore provocato dal reale, se la norma è un'auto in cui si deve obbedire e non portare stivali con tacchi, se la norma è una famiglia che si è scollata da tempo, una insegnante di flamenco che trascina il suo dolore nella danza, una bicicletta rubata, la forza della poesia (la sua funzione) deve consistere nel violentare questa norma (1), organizzando un dialogo profondo e diretto con l'anima. Poppy riesce a fare tutto questo perché la sua beatitudine in certi momenti diventa poesia, si riflette nell'attimo indimenticabile dove l'armonia s'incontra con i nostri sogni, l'attimo in cui giunge improvvisa l'epifania (2). Lo sguardo apparentemente disorganizzato di Poppy mi ricorda infatti l'obraz (3) ejzensteiniana, ossia "[...] una vera e propria Gestalt, una formazione della mente per sintesi di dettagli parziali privi di un senso comune, che lo acquistano nel momento in cui vengono collegati in una struttura interiore" (4). La formazione di un senso che illumina il volto di Poppy può anche non influenzare la trasmissione di questo stesso senso all'altro (una illuminazione). Infatti neppure il "beato" è in grado di definire analiticamente lo stato della sua beatitudine. Poppy saprebbe riferirci il significato del suo dialogo con il vagabondo? Saprebbe spiegarci com'ha fatto a comprendere che colui che soffre non è Abele ma il probabile candidato ad essere un futuro Caino? Ritengo che la Beatitudo di Poppy (intesa come completa felicità dello spirito) si sciolga lentamente in una più consapevole Felicitas (nel significato latino di fecondità). Ossia l'abbagliante senso di armonia con le cose, la contemplazione quasi divina di una condizione superna (per cui Poppy si può anche permettere, in un certo senso, di giocare con i limiti terreni del prossimo), si stempera in una condizione più umana, più controversa, con la scoperta dei limiti e delle difficoltà della trasmissione agli altri, si stempera cioè in una condizione di profilo più basso ma più fecondo: fertilità come ritorno alla maternità, ritorno all'acqua (Poppy e Zoe in barca sul laghetto cittadino), fertilità come consapevolezza che la gioia (della madre) scivola lentamente fuori dal dolore (il travaglio, il pianto del bambino). La felicità di Poppy non è trasmissibile (o lo è solo in parte) perché è Beatitudo, uno stato di grazia che tra l'altro è di breve durata (almeno fino allo sfogo rabbioso di Scott) e intendo beatitudine proprio nel senso che Montale suggella nella sua poesia "Felicità raggiunta, si cammina"(5). Ossia felicità come momento breve e fragile, già intrisa, nel momento stesso del suo catartico arrivo, di un dolore spazio-temporale che riconduce a terra l'aerea leggerezza del beato. Per dolore spazio temporale mi riferisco innanzi tutto alla dimensione temporale del ricordo e della speranza (rapportare la condizione di beatitudine al passato e ad un ulteriore arricchimento di un futuro incerto) e in secondo luogo mi riferisco alla dimensione della prospettiva classica occidentale (Masaccio). Solo il momento del passaggio tra le due condizioni definisce l'immacolata Beatitudo e questo attimo è splendidamente metaforizzato nell'incontro tra Poppy e il vagabondo e soprattutto dal dialogo in cui l'apparente afasia non è altri che l'ammissione dell'imperante acatalessia. La conoscenza parte da questi presupposti, dalla consapevolezza stessa che il senso è una equazione di grado infinito, espressione di infiniti risultati; ciò che non va mai perso di vista è la volontà di conoscenza (anche se l' immensità scoraggia e il dialogo è faticoso da capire). Infine Poppy come metafora del cinema, che si muove lungo il suo tragitto tutto da definire, tutto da stabilire: una scelta questa (come procedere nella formazione di un'idea) che si inserisce tra l'atto manicheo di suddividere il mondo in forme bianche e nere e la rinuncia a voler affondare il dito nella piaga della complessità per timore di mettersi in gioco. L'afasia insomma è un rischio che bisogna correre, che il cinema deve affrontare (questo al di là delle storie ma anche attraverso le storie), non solo per conoscere le metamorfosi in atto (le trasformazioni del senso e dell'equilibrio inteso come ininterrotto assestamento) ma per rappresentare anche le performance del progetto (sceneggiatura) e di tutto ciò che sta dietro al progetto.

(1) Jan Mukarovskij, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, Torino 1974 (3). "L'opera d'arte è sempre un'applicazione inadeguata della norma estetica, essa ne viola lo stato non già per necessità involontaria ma intenzionalmente e perciò di regola in modo assai sensibile. La norma viene incessantemente violata. [...] Esaminata dal punto di vista della norma estetica, la storia dell'arte appare come la storia delle rivolte contro la norma (le norme) dominante" (pp. 68-69).
(2) Umberto Eco, Le poetiche di Joyce, Bompiani, Milano, 1987, pp.44-58.
(3) Il concetto di Obraz (immagine) è importante per capire la teoria del montaggio di Ejzenstein, cioè l'immagine che lo spettatore ricostruisce nella sua mente. Gli innumerevoli dettagli della rappresentazione in un primo momento risultano evanescenti e insignificanti, fin quando d'improvviso, quasi come in un'epifania, formano per sintesi l'immagine unitaria(obraz).
(4) Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p. 48.
(5)
Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case
(Ossi di seppia)

10 dicembre 2008

Changeling (Clint Eastwood, 2008)

L’altezza di un bambino (nove centimetri più basso del novenne Walter Collins) o la differente arcata dentale o il fatto che il piccolo mistificatore non ritrovi il suo posto in classe, convincendo così la maestra di non avere davanti a sé il “vero” Walter, non rappresentano prove a carico messe a disposizione dello spettatore al fine di ricostruire un’indagine che concordi con la versione della madre, Christine Collins. Per questo sarebbe stato sufficiente il punto di vista della madre e noi spettatori avremmo comunque stabilito un “contatto” empatico con lo “sfortunato” personaggio. Durante la sequenza finale del film uno spettatore ha pronunciato appena un attimo prima di Angelina Jolie la fatidica parola, “speranza”, crogiolandosi nell’autocompiacimento dopo avere avuto conferme alle sue aspettative. Alcune persone in sala si sono indignate quando Gordon Northcott ha negato la sua colpevolezza; uno spettatore seduto alcune file sopra di me ha sentito di odiare il capo della polizia lasciandosi sfuggire una brutta parola. Con questi presupposti il film potrebbe sembrare il solito spettacolo accattivante, un’opera che ti prende per mano e ti conduce nel suo dipanarsi événementielle fino all’epilogo ormai stampato da tempo come scelta mentale voluta dal regista o dalla produzione. Ma Changeling per fortuna non è un film che vuole mostrare la forza della speranza, perché questa forza è già evidente sin dal primo fotogramma, anzi è già espressa nella storia “vera”, o meglio nei verbali del processo che si tenne nel 1928 nei confronti del capitano Jones o negli articoli dei giornali dell’epoca. La sostituzione del figlio con un impostore e il comportamento della polizia che cerca di avallare la veridicità “fisica” degli eventi e la “malattia” della madre sono espedienti utilizzati spesso dal cinema per “convincere” i nostri sensi che gli evanescenti fantasmi scolpiti dalla luce siano proiezioni reali. Ma questo non è il caso di Changeling, perché la malattia non risiede nella mente della cavia che si ostina a non riconoscere, ma nel tentativo di formare un’immagine verosimile. In altri termini il bambino impostore potrebbe essere il vero Walter in quanto icona di un’epoca, ossia idea fotografica di un certo modo di concepire l’infanzia americana degli anni venti. In fondo possediamo solo cinegiornali, fotografie, incartamenti, verbali che aiutano certamente a ricostruire storicamente gli eventi di un’epoca tramontata, ma che non rilasciano l’odore, la forza prorompente dei tempi. E solo il cinema possiede quella dose di magia per poterlo fare. L’odore di un’epoca, la sua segreta vitalità, la sua essenza profonda è trasmigrata nel cinema, nella sua capacità di raccontare ma anche di “mostrare”. A questo proposito due aspetti mi hanno particolarmente colpito: il gioco fluido dell’effetto di reale; l’utilizzo del campo/controcampo.

La fluidità della mdp ci mostra bambini che giocano, i loro giocattoli, asce insanguinate, cappellini, una centralina telefonica dell’epoca, le vecchie auto dei nostri ricordi qui nuove di zecca, tram che viaggiano lentamente, quasi a passo d’uomo, che puoi rincorrere per un po’ sulla pavimentazione della via. Il cinema non può ancora rilasciare concretamente gli odori che invece mostra attraverso le immagini, ma questi stessi odori emergono nelle sensazioni provate attraverso un input che lo sguardo invia all’olfatto. Odori immaginari, non riprodotti dalla tecnologia(visione, audio) ma da una certa atmosfera che inverte il meccanismo per cui si realizza la funzione olfattiva. I recettori degli stimoli delle mucose nasali trasformano l’informazione chimica in impulso nervoso, ma in questo caso probabilmente l’immagine, e l’atmosfera dei tempi che suscita, stimola il ricordo di antichi profumi, resuscita l’odore insito nei tempi, quell’odore di amido e lavanda che usciva una volta dai cassetti della nonna, di bucato pulito lavato a mano e di dolci e caramelle che il commesso prelevava dal boccione di vetro di un’antica pasticceria. Forse questi profumi li ha “annusati” soltanto il sottoscritto, ma suppongo che Clint Eastwood abbia scelto (com’è suo solito) la ricostruzione puntuale e inappuntabile di un’epoca o almeno di come oggi “deve” essere immaginata quell’epoca. Los Angeles anni venti-trenta, polizia corrotta che uccide senza regolari processi e che rinchiude donne supposte fragili ma in realtà forti e tenaci, bambini che mangiano panini incartati con cura, camminano da soli per le strade, abbandonati o semplicemente lasciati crescere nel mondo. In una sequenza del manicomio assistiamo ad un elettroshock, un macchinario diabolico che fa scorrere la corrente elettrica nel cervello del paziente inducendo convulsioni, utilizzato su una “paziente” che non accetta il suo ruolo voluto dalla società civile. Questa terapia elettroconvulsivante, detta TEC, (dovrei rivedere il film, ma all’epoca era già stato inventato il macchinario?) induce una scossa nel cervello del malato ma anche nella nostra mente; è la sintesi estrema, la personificazione del Male spacciato per il Bene. Città degli Angeli, 1928; eppure sembra di essere agli inferi, ma il fatto è che gli inferi sono verosimili, ingannevoli, perché riescono a creare illusione di realtà, a ingannare mostrando una qualità sopportabile del Bene. Il cinema è stato ed è un mezzo capace di supportare queste volontà politiche, offrendo con la sua Luce bianca e pura ogni possibilità di redenzione, di ricostruzione. Infatti viene offerta a Christine Collins la possibilità di ricostruirsi una vita verosimile attraverso la convivenza di un figlio verosimile in una Los Angeles verosimile. Ma Eastwood mostra solo in lontananza questa città verosimile perché quando la mdp si avvicina alla superficie, e scava dentro gli oggetti, dalle fauci della terra emergono gli scheletri degli effetti di reale: gli oggetti mostrano, indicano, rivelano che siamo all’inferno, che la luce del cinema non è pura, ma opaca. La sig.ra Collins sceglie la seconda possibilità: gettare la maschera, non prendere droghe, rifiutare l’apparenza della bellezza. La bellezza è anche la polvere del macadam, è anche il respiro della morte, non perché la morte sia bella ma perché la morte esiste ed è concreta, trasforma in larva anche il peggiore dei criminali. L’appiccato e i suoi tremori è un altro effetto di reale che non indica un autocompiacimento, una soluzione trovata e completata dal Bene (purtroppo in sala ho sentito “gridolini” di sollievo, appagamento per l’espiazione del “cattivo”), ma solo la fredda affermazione del Male, la ricerca di una conoscenza, un’analisi compiuta (attraverso i movimenti del condannato che sale le scale, si lamenta, soffre, ha paura, viene incappucciato) per scavare ancora una volta nelle viscere della terra scoprendo ciò che non è possibile vedere. La realtà è costruita attraverso i suoi oggetti, attraverso i suoi particolari e Eastwood, da grande regista qual è, lo sa benissimo.

Non gradisco molto nei film contemporanei l’eccessivo utilizzo del campo controcampo, lo confesso, e per eccessivo uso intendo solo tre o quattro scene. Non lo sopporto più di tanto, lo apprezzo certamente nel cinema classico, ma non in quello odierno; eppure in Eastwood riesco a gradirlo perché il suo non è un uso precipuo per mostrare l’altro, ma per annullare lo spazio dell’altro. Innanzi tutto sovente, quando inquadra il volto nitido e in primo piano (anche in primissimo piano) dell’attore in campo, la nuca dell’interlocutore è spesso mostrata fuori fuoco. Come se non bastasse l’annullamento dell’altro attraverso la formazione di un inganno (la donna è pazza e va curata), un inganno verosimile, si annulla anche l’altro attraverso l’esclusione, per cui il controcampo diventa luogo di interdizione, una porzione di territorio altrui. In questo concordo con Giona A. Nazzaro quando scrive: “Scindete la parola: contro-campo sembra indicare la porzione di territorio, spazio, inquadratura occupata dall’altro per antonomasia, ossia il nemico, e ciò che potenzialmente ci nega come identità che guarda, essendo noi nel campo” (1). Quindi noi siamo “portatori di un altro controcampo”, siamo coloro che escludiamo ma anche coloro che sono esclusi. Questi primi piani della Collins e del capitano Jones che si affrontano nel campo/controcampo sono un duello oltre che diegetico anche iconico. Il rossetto di Christine che risplende sulle sue labbra e che dovrebbe denotare un senso erotico, accattivante, attraente, in realtà ispira sofferenza, ispira il sangue della guerra come quello incrostato sull’ascia utilizzata da Gordon Northcott per abbattere bambini. Ecco perché lunghi brividi hanno attraversato il mio corpo, un po’ come convulsioni indotte da un macchinario, per via dei profumi, del sangue, dei poveri resti e dei semplici oggetti quotidiani che oggi non esistono più se non nei musei o in qualche soffitta.

(1) Giona A. Nazzaro, L’epifania dell’altro, in Filmcritica n. 573 marzo 2007 p. 123. Questo articolo di Nazzaro è un’analisi di Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood.

30 novembre 2008

La ronde (Max Ophuls, 1950)

Un film che fa assaporare per un attimo l’estinzione del tempo, trasformando il movimento-spazio in un giro inestricabile nei luoghi persi della quotidianità. In una delle sequenze più belle il “meneur de jeu” (probabilmente voce-in extradiegetica che rimane sulla soglia del film dialogando con personaggi e pubblico, ma che non entra a far parte della storia raccontata) (1), nell’introduzione dell’episodio “La cameriera e il giovane”, mentre sta camminando sul set dell’episodio precedente, rivolgendosi alla cameriera Marie, proferisce la seguente frase: “Passeggiamo nel tempo”. E Marie risponde: Due mesi… luglio è lontano”. Ma nel momento in cui la ragazza pronuncia queste parole, una dissolvenza incrociata ci mostra il nuovo abito da cameriera di Marie che sta per uscire dal precedente episodio per farsi accompagnare sulla soglia della sua storia (appunto “La cameriera e il giovane”). Ovviamente si tratta di un’ellissi, ma ritengo che ci troviamo di fronte alla formazione di un’assenza. Un’ellissi senza ellissi (ovvero il salto temporale c’è, ma poiché il tempo è annullato dai deittici presenti sulla scena, come ad esempio l’anticipazione dei fatti alla cameriera, l’ellissi evapora nel senso). Nel film Ophuls usa molti stratagemmi per coniugare le esigenze semantiche della storia (nel senso: “ascolta, ti racconto alcune storie interessanti e illuminanti sull’amore e il piacere”) con i presupposti irrinunciabili del filmico (ossia la presenza costante del set che Ophuls non disdegna di mostrarci in quasi tutte le sequenze). In altri termini: siamo nel regno della deissi e alle soglie del cinema moderno. Questi continui passaggi tra classicità della storia (ma nemmeno tanto) e modernità del meccanismo (il narratore che dialoga con personaggi e pubblico, e le marche enunciative come oggetti del set che vengono mostrati, quali lampade, macchine da presa, proiettori, ciak) sospendono il flusso del tempo, adottando una prospettiva atemporale e circolare dove il peso del racconto riesce a piegare la dimensione “ovattata” (la storia è immaginata agli inizi del secolo scorso) dello spazio-tempo. La ronde, la giostra, mostrata nell’incipit (da cui scende il primo personaggio, la prostituta Léocadie, subito accompagnata a recitare nel primo episodio), prende forma a vari livelli. Mi limito ad elencarne solo alcuni: metaforico, semantico, diegetico, strutturale.
La metafora del cerchio che connette e completa gli eventi, la giostra che gira, riportando ogni cosa al principio, senza arrivare da nessuna parte. Giostra come metafora della vita, delle passioni, del piacere che non portano a niente, perché nulla (se non un’improvvisa rottura della pellicola) può fermare il giro. Le coppie si formano e si disfanno. Il personaggio di un episodio, abbandonando l’amato o l’amata, prosegue il suo tour nell’episodio seguente, danzando con un altro amante, il quale a sua volta fugge in un’altra storia seguente con un altro ennesimo personaggio, fino a quando il cerchio si chiude riportando la storia al principio (il primo e ultimo personaggio è la bella Léocadie interpretata da una giovanissima Simone Signoret). A questo punto tutto può ricominciare a fluire per l’eternità davanti al nostro sguardo. Nessuno scende dalla giostra. Il cerchio è una sorta di girone infernale occupato da anime condannate a vivere le loro frivole storie, non melodrammatiche ma appunto “mortali”, perché l’odore della morte accompagna incredibilmente la “leggerezza” degli eventi che si ripetono senza soluzione di continuità. La metafora ultima in fondo è un ultimo valzer a Vienna (città dov’è ambientata la storia) cercando di dimenticare la chiusura del senso di ogni cosa. Nel vorticoso e “circolare” movimento dei personaggi che danzano (balli, camminate, scale scese e salite) l’attesa di una sconfitta in fondo aleggia lungo ogni sequenza.
Il valore del “messaggio” ci trascina nel gusto tipico di un’epoca “felice”, spensierata, l’inizio secolo di una Vienna dove la vita viene scandita dalle tematiche care alla Secessione viennese (2), ma è come se ci trovassimo invischiati nei lugubri meandri del Romanticismo francese (la donna sposata a letto legge Stendhal) dove l’happy ending è stilema sconosciuto. Gli eventi ci trascinano nelle speranze e nelle delusioni che vengono farcite da altre storie. Per dimenticare il fallimento di un matrimonio, senza nemmeno sapere perché accada tutto ciò, si cerca un’altra speranza o un’altra impossibile fedeltà. Nell’episodio “La donna sposata e suo marito”, il consorte, pur non essendo a conoscenza del tradimento della moglie, è teneramente consapevole della vuota convivenza e della perdita di una fedeltà mentale e frequenta un’amante “cocotte” che nutre nel separè di un ristorante alla moda richiedendo una impossibile fedeltà. Il cerchio non è soltanto una metafora della vita (e della morte) ma è anche un senso che non riusciamo a perdere (facciamoci comunque del male, direbbe Nanni Moretti).
L’aspetto diegetico in fondo scandisce ogni cosa, ogni movimento, ogni frase del film. Lo dice il presentatore nell’incipit. Una Vienna d’altri tempi. Una freschezza che non c’è più. Nostalgia per un passato che è l’unica certezza. Innanzi tutto perché è l’Accaduto e in quanto tale può essere ricordato come un mare immobile, congelato e quindi relativamente semplice da scandire, inoltre nel passato può innestarsi la nostra ricostruzione più o meno romantica, più o meno nostalgica, più o meno gradevole. Tutto viene stemperato perché non c’è timore per l’Imprevedibile e la speranza non ha alcuna forza o potere nei confronti della nostra fantasia. Non c’è timore e le storie possono connettersi senza drammi. Non melodramma ma regno del libertinaggio dove la menzogna e l’astuzia prendono il sopravvento. Allora il contatto tra personaggi e pubblico (3) già di per sé molto “patetico”, in quanto le storie apparentemente frivole scorrono nella mente come ricordi di un tempo perso e impossibile da ritrovare (4), si alimenta del “nostro” modo di vedere, conoscere e/o immaginare una Vienna del 1900. Ma la mimesi non prende il sopravvento (e non potrebbe) sia per la distanza dei mondi (l’inizio del XIX secolo viennese, il 1950 di Ophuls e il mondo post-Due Torri entrato in un immaginario culturalmente molto distante), sia per l’effetto di “straniamento” (5) procurato dalle intromissioni nella storia da parte del discorso. Ovvero, il discorso fatica a rimanere sepolto sotto la storia, mimetizzato nelle pieghe del plot e “inscatolato” nei corto-circuiti delle connessioni (montaggio ma non solo); deve uscire allo scoperto, mostrarsi per affermare l’importanza del dispositivo, mostrarsi perché l’arte “parla” prima di tutto di se stessa o al limite del suo rapporto politico con il mondo.
I movimenti di macchina sono quelli tipici di Ophuls: carrellate circolari, dolly, movimenti fluidi e leggeri (e si pensi che all’epoca non era semplice muovere la macchina da presa come oggi); inquadrature "dinamiche" in cui i personaggi si muovono sovente, correndo, ballando, camminando, salendo e scendendo scale, scomparendo dietro specchi, attraversando vetrate e porte per riapparire subito dopo sempre “inseguiti” dall’obiettivo attento e preciso di Ophuls. Praticamente lo scheletro, la struttura, il discorso (ognuno decida di definire come vuole il principio di costruzione di un film) esce allo scoperto, si fa esoscheletro, diventa esso stesso l’oggetto del discorso, diventa metacinema. Le storie d’amore e di desiderio a questo punto attraversano i vari set, si aprono e si chiudono seguendo la volontà del regista (un uomo qualunque, un montatore, una comparsa) che interrompe taglia, aggiunge, si intromette dialogando con i personaggi assumendo ogni volta una forma diversa. Questo tipo di cinema sarà recuperato dai “giovani turchi” che si ricorderanno di questo grande Maestro quando gireranno gli splendidi film della Nouvelle Vague. Eppure ritengo che La ronde ci invii messaggi diversi, come una strada nuova, mai praticata, se non da percorrere, almeno da conoscere topograficamente. Un esempio illuminate di ciò che intendo affermare riguarda una delle tante ellissi “atipiche” de La ronde: nell’episodio “L’attrice e il Conte”, Charlotte (l’attrice mirabilmente interpretata da Isa Miranda), mentre sta circuendo il suo caro Conte, allo scopo di tranquillizzarlo, dice: “Nessuno ci vedrà… se non noi soli”, ma la mdp con una lieve carrellata verticale inquadra uno specchio incastonato sul soffitto del baldacchino che sovrasta il letto di Charlotte, contraddicendo la frase appena pronunciata dall’attrice. Solo un’ellissi può riportare il film sulla “giusta” strada. Ma l’ellissi viene annullata non da un’assenza (che sarà ricostruita poi dalla nostra mente) ma da un deittico: in questo caso da una breve sequenza che mostra il regista, uomo qualunque, personaggio, adesso nelle vesti di montatore intento a tagliare la pellicola, con le immagini inopportune del rapporto amoroso, incollando le parti del film non compromesse dalla sequenza incriminata. La ronde ci regala questa capacità di “estrarre” la storia dalla sua “forma” prescelta, mostrando il meccanismo, ma soprattutto mostrando l’ineluttabilità dell’Accaduto, sia esso identificabile in un’epoca piena di fiducia e di spregiudicatezza, tra l’altro magnificamente ricostruita dal film, sia da interpretare come l’atto di un regista “apolide” che amava il cinema non solo come prodotto finito ma come principio di costruzione, lavoro, fatica.

(1) Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze 1994, p. 83.
(2) Secessionisti furono pittori, architetti, designer, scenografi come Klimt, Wagner, Olbrich, Hoffmann, Moll, Moser, Roller. Per i “secessionisti” era anche molto importante tenere conto della presentazione delle opere da esporre oltre che della loro scelta; pertanto elaborarono un modello complessivo in cui, oltre alle opere d’arte esposte nelle mostre, si teneva conto dell’architettura d’interni, del decoro e delle arti applicate, allo scopo di creare un ambiente coeso (modo di esporre le opere, tappezzerie, colore delle pareti, fregi e ornamenti vari, forma delle sale, ecc.)
(3) Supponiamo un pubblico di oggi, di questa angosciante alba del III millennio, tanto per complicare le cose.
(4) Volendo prendere solo un vago spunto dalla Recherche.
(5) Victor Sklovskj, L'arte come procedimento in Teoria della prosa, Einaudi, Torino 1976, pp. 5-25

13 novembre 2008

Lola Montès (Max Ophuls, 1955)

Mentre la storia si ispira alla vita di Eliza Rosanna Gilbert (1821-1861), ballerina e attrice irlandese nonché amante del re di Baviera, il discorso ci trascina direttamente dentro la vita di Lola Montès; è come entrare in un caleidoscopio scintillante, circolare, spettacolare, dove sperimentare le emozioni lasciandosi trascinare nel gorgo caotico degli eventi per liberare la propria empatia nei confronti di una donna fatale come pure della routine tematica dell’eterno dilemma temporale: il movimento della vita che contiene la presenza e l’odore ancestrale della morte. A Ophuls interessa conoscere l’animo sofferente di Lola Montès, non vuole descrivere la sua vita, ma “entrare” nei suoi ricordi, riuscire a “denudare” il desiderio di vita, la forza d’animo di una donna che esprimeva la sua arte attraverso il proprio corpo. Per resuscitare la forza dirompente dell’arte di Lola (le sue folli danze in cui non si peritava di mostrare parti intime del corpo suscitando scandali in continuazione) sceglie la poesia delle immagini, ossia opera una scelta formale estrema. Opera in due sensi apparentemente opposti e incongruenti (infatti pubblico e censura decretarono il fallimento del film) ma in realtà perfettamente coesi (non giustapposti e/o montati ma “fusi”): pezzi di poesia strappati dal tessuto narrativo della diegesi (la storia, la vita, i flash-back) si compenetrano con la materia grezza degli eventi stessi (focalizzazione, sovrinquadrature, dominanza del barocco). Il circo come luogo presente del racconto, come luogo in cui si rappresenta la vita di Lola Montès, in cui l’impresario (narratore omodiegetico?) racconta, mostrandola come si può mostrare sulla pista di in un circo, la vita della contessa Maria Dolores de Lansfeld in arte Lola Montès. Il circo è un caleidoscopio di colori, di cambi di scena, di quinte e costruzioni che rievocano i luoghi e le città della vita della contessa ballerina. La stessa Lola li percorre apparentemente come un’abile acrobata che volteggia su corde rarefatte, che salta su cavalli accompagnata da altri acrobati, da nani, da mille personaggi che si muovono in continuazione, ballano, si esibiscono in salti e capriole, corrono. Il presente della narrazione, il narratore omodiegetico, la stessa Lola (fenomeno da baraccone sulla pista del circo, “mostruosità” appagante, donna fatale che ha oltrepassato il confine delle aspettative diegetiche del pubblico dell’epoca ), si mostrano nell’immagine “attuale” della rappresentazione circense non in quanto attanti incapsulati in un presente “miserabile” (1) che rievocano “l’immagine ricordo di antichi, magnifici, presenti”(2), ma come “corpi” che assorbono e riflettono la luce (i colori) di un passato “in fieri”, ossia che si è già svolto ma che si sta ancora sviluppando davanti ai nostri occhi. Come scrive Deleuze, ci troviamo di fronte a uno sdoppiamento del tempo “che fa passare tutti i presenti e li fa tendere verso il circo come verso il loro avvenire, ma che conserva anche tutti i passati e li mette nel circo come altrettanti immagini virtuali o ricordi puri” (3). Per Deleuze si tratta di un’oscillazione tra attuale e virtuale. Tutto riconduce al Circo. I flash-back che portano in scena il glorioso passato di Lola Montès, che attualizzano il virtuale, si confondono con le rutilanti evoluzioni narrativo-acrobatiche di saltimbanchi e cambiamenti incessanti e infiniti di scenografie che mostrano i luoghi deputati della vita della grande regina decaduta (4). Ma c’è anche di più. Allo sguardo non sfugge l’impatto violento (che in parte contribuisce insieme ad altri fattori a rendere meno intelligibile il film) tra il flash-back in cui si mostrano sequenze naturalistiche (paesaggi, strade, interni di teatri, di case) e la scena teatrale del circo. Nel circo inoltre Ophuls si sbizzarrisce con le sue famose carrellate circolari o con riprese di “giostre” in movimento (bellissima la vista sulla giostra che gira in senso antiorario intorno a Lola seduta su una pedana che gira in senso orario) . Movimenti di macchina che “circolano” nello spazio del circo dove ogni cosa si muove (scenografie, persone, pedane, mdp) ad esclusione di Lola che sembra immobile anche quando, acrobata goffa, cammina sulle corde o rimane distesa con la schiena posata sul garrese di un destriero: le sue acrobazie e il suo corpo seduto su pedane roteanti che lo muovono pur lasciandolo immobile (effetti accentuati dai movimenti contemporanei della mdp) mostrano la sconfitta e l’impossibilità di mantenere una certezza. “La vita è movimento” dice Lola Montès. Nei flash-back che presuppongono un’uscita dalla metafora e dalla rutilante chiusura del gorgo (circo, morte?) il naturalismo delle immagini viene “turbato” (una distorsione che è anche distrazione) dai labirinti di stanze e scale (il teatro e la reggia), dagli specchi e dalle innumerevoli cortine (paraventi, porte a vetri, balaustre, piante, oggetti di ogni tipo) che disturbano il tentativo di inquadrare una visione “pulita”. La ridondanza di oggetti relega spesso sullo sfondo l’immagine desolata di una vita che non riusciamo ad afferrare nel naturalismo del profilmico, perché il filmico è distratto da un mondo rutilante che soffia, arde, annienta ogni ricostruzione. Lola Montès ha già attraversato il suo orizzonte degli eventi (5), luogo da cui non potrà uscire, senza alcuna possibilità di modificare gli eventi che avvengono fuori dall’orizzonte stesso. Il circo è buco nero e rappresentazione di un vissuto collassato e i ricordi di Lola Montes sono segni disturbati da un caotico e imprevedibile universo. Come afferma Aumont (6) il film di Ophuls è composto da innumerevoli sovrinquadrature (inquadratura nell’inquadratura come ad esempio una finestra, una porta o un’architettura quadrata) che servono a confondere, disgregare ma allo stesso tempo a rafforzare la superficie:

“[…] l’acrobatica macchina da presa di Ophuls produce solo una sovrincorniciatura effimera e rutilante. In tutti i casi tuttavia si ottiene lo stesso effetto, nel contempo sconcertante e rassicurante, di una mise en abîme visiva, diegetica e retorica, in cui la cornice «seconda» perfora e nello stesso tempo rafforza la superficie. (7)

Lola Montès è un film di vedute, di quadri nel quadro, di volti e corpi visti in lontananza, seguiti da carrellate e da dolly che esaltano e rafforzano il continuo movimento. Più che mostrare l’immagine di un evento, Ophuls ci mostra il ricordo di un’immagine persa che solo la pittura riesce a rievocare e a rafforzare sulla superficie dei quadri. Un cinema che ha influenzato tanti registi, che ha proposto un altro modo di vedere, un altro modo di sentire.


(1) Gilles Deleuze, L’imamgine movimento, Ubulibri, Milan o 1993, p. 99
(2) p. 99
(3) Ibidem
(4) Nel senso di ex amante del re di Baviera.
(5) L’orizzonte degli eventi è una superficie che circonda una singolarità, ossia una piccola regione dello spazio in cui la materia è talmente compressa da non lasciare uscire neppure la luce. Mi scuso per questa banale spiegazione, ma l’argomento è molto complesso. Una spiegazione semplice e chiara si trova su Wikipedia.
(6) Jaques Aumont, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1998 (2) p. 88.
(7) p. 88.

2 novembre 2008

Wall-e (Andrew Stanton, 2008)

La digitalizzazione del mondo si scontra con l’esigenza antropomorfica, il bisogno ulteriore di ritrovare un’umanità smarrita da 700 anni presuppone una scelta che ricorda una logica booleana (ossia Vero o Falso) che è (od è stata) alla base della ricerca e dello sviluppo relativo all’intelligenza artificiale. Adesso con questo non intendo addentrarmi nel complesso e per me ostico campo della logica, ma ritengo che Wall-e sia un film particolarmente affascinante proprio per gli stimoli relativi al rapporto mente umana/intelligenza artificiale che lasciano spazio ad una riflessione senza soluzione di continuità. Wall-e è un film divertente, disarmante per la sua (mi si scusi l’ossimoro) “complessa semplicità”, emozionante per la sua originale e allo stesso tempo tenera storia d’amore fra due forme di intelligenza artificiale: una obsoleta e relegata in un mondo “distopico”, l’altra altamente tecnologica e inviata in quello stesso mondo alla ricerca di una forma di vita organica. Le scelte stilistiche della Pixar non sono mai banali o ridondanti in modo da lasciare in dote allo spettatore una mirabile ed emozionante storia d’amore che in fondo è tutta “artificiale” (anche se i robot sono antropomorfizzati). L’umanità (o quello che è diventata) è relegata ad un ruolo di secondo piano, una comparsa che è causa e mezzo dello sviluppo del plot ma che non è al centro della focalizzazione del nostro sguardo. La legge che sembra dominare nel mondo di Wall-e è l’obbligo di eseguire una direttiva, il dovere irrinunciabile di scegliere un insieme “α” in cui ogni cosa che rientra in “α” entra a far parte della direttiva e ogni cosa che sia fuori da “α” non è contemplata dalla direttiva. Il problema (e qui per me sta il fascino del film) consiste nel fatto che ognuno ha le sue direttive da seguire. Eve deve ricercare materiale organico o testimonianze di una trasformazione sostanziale delle condizioni di vita di un pianeta “infettato” dall’uomo e non più abitabile; Wall-e esegue (unico rimasto tra tanti sui simili ormai “esauriti”) un’altra direttiva che gli impone di compattare i rifiuti e accatastarli fino a formare altissime strutture più elevate persino dei vecchi grattacieli rimasti ancora in piedi; la nave spaziale in cui si è rifugiata un’umanità ormai divenuta “inutile”, e relegata a “mero sguardo della superficie”, ha il compito di rimanere in attesa “tra le stelle” fin quando non sarà possibile rientrare sulla Terra; l’Hal-9000 di Wall-e esegue la direttiva primaria (anzi una segreta direttiva post-primaria): impedire l’esecuzione delle altre direttive, perché non sarà “mai” più possibile tornare sulla Terra. Questi aspetti “semantici” sarebbero di ordinario interesse se non intervenisse un altro aspetto fondamentale e degno di attenzione: mentre gli umani sono grossi neonati incapsulati nel loro alveo e dalla mente “digitalizzata” in scelte manichee, organizzate da una “volontà automatica” (il monitor che osservano continuamente è la loro unica realtà che offre solo scelte “booleane”), le intelligenze artificiali (e in particolar modo Wall-e) riescono (nonostante le direttive) a scegliere seguendo canoni e principi che oserei definire (scusatemi l’accostamento estremo) fuzzy (nel senso di pertinenza della logica fuzzy). La scelta non è più tra “0” e “1”, tra VERO e FALSO, in quanto non è più possibile determinare e immaginare un Universo coerente e sistematico formato da “pezzi giustapposti coerenti e strutturati”. La logica fuzzy (1) prevede la possibilità di considerare un insieme sfumato nel senso che un dato oggetto può non essere completamente nell'insieme né completamente fuori. Questo modo di ragionare (ormai da tempo applicato in molte discipline e soprattutto nella ricerca scientifica) si adatta benissimo all’ambiguità e imprecisione del linguaggio umano o meglio (riferendomi a Wall-e) del linguaggio dell’intelligenza artificiale antropomorfizzata. E mentre i simpatici droni ci coinvolgono nella loro appassionante storia (l’amore organizza questa storia inondando poeticamente le bellissime immagini) e si relazionano agli eventi in base ai sentimenti provati (riuscendo comunque a coniugare l’universo fuzzy con le direttive binarie che hanno ricevuto), gli esseri umani, ormai ridotti a grossi grassi neonati incasellati nella propria distanza dal mondo, hanno percorso una via diametralmente opposta, finendo con l’allontanarsi da quella sfera dell’imprecisione dove non esistono frontiere ben definite ma occasioni e possibilità di conoscenza incommensurabili. E l’amore è la forma di conoscenza più profonda, più imprevedibile, più emozionante. Questa capacità trasferita sui prodotti dell’uomo (l’inventore dei robot) è stata persa dall’uomo stesso. Il mistero della vita e della forza interiore di un’umanità primitiva che lancia il suo osso-navicella nello spazio (2) è stato perso, anche se nasce improvvisa una speranza d’amore infusa dall’esempio di due “menti” che si amano danzando nello spazio liberi da bit e direttive. L’uomo incapace di camminare si solleva con uno sforzo incontenibile per acquisire una nuova posizione eretta (nuovo uomo primitivo) al suono di Così parlò Zarathustra (ricollegandoci mirabilmente all’uomo primitivo di Kubrick). La nuova Eva potrà dare così una nuova mela, non più intatta e prevedibile (3), ma vaga, imprecisa, morsicata (quando una mela da intatta a “mangiata” smette di essere mela?), insomma una mela fuzzy. (4)

(1) Bart Kosko, Il fuzzy-pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy, Baldini & Castoldi, 2002.
(2) Incipit di 2001: Odissea nello spazio in cui vediamo l’osso lanciato in aria dal troglodita trasformarsi in navicella spaziale.
(3) Una mela che Picasso non ha mai dipinto
(4) Per un po’ di giorni Cinemasema diventa Cinemarema.

27 ottobre 2008

Mamma mia! (Phyllida Lloyd, 2008)

Una settimana è trascorsa prima di scrivere qualcosa su Mamma Mia. Quando un film non mi piace per niente non riesco a stilare un elenco di difetti, né riesco a stroncarlo. In questo anno avrei potuto pubblicare molti altri post (tanti quanti sono i film che ho visto e non sono riuscito ad apprezzare). A volte mi è sufficiente una sequenza, altre un’unica scena per farmi decidere a “trovare” qualcosa di positivo da esprimere. Così è capitato per Mamma Mia. La sala era gremita da un pubblico composto da adulti e ragazzi. E tutti quanti erano letteralmente trascinati dal rock disimpegnato e kitsch degli Abba (370 milioni di dischi venduti negli anni 70), una musica coinvolgente con tutte le migliori canzoni dei dodici anni di vita della band. Alcune ragazze commentavano ad alta voce gli episodi del film, cantando all’unisono con i personaggi, anche se non ero infastidito perché il volume era talmente alto da riecheggiare con forza nella sala. Non vedevo da anni una simile partecipazione; le persone si lasciavano andare al ritmo incalzante, a quella magia mista di musica e “storia” (in fondo una “commedia brillante”) a cui era impossibile sottrarsi. Ma non per tutti. A me il film infastidiva, nonostante gli ammiccamenti continui della Streep, nonostante la bellezza da vicina di casa di Amanda Seyfried. Gli ingredienti c’erano tutti, ma io avevo già deciso di mettere Mamma mia nella soffitta dei miei ricordi sbiaditi o rimossi. Non ne avrei “parlato” con nessuno. Ma col passare dei giorni mi sono in parte ricreduto anche se i difetti (evidenti e allo stesso tempo talmente banali da infastidire) non sono pochi: fotografia da cartolina, coreografie semplici e confusionarie, personaggi poco approfonditi, movimenti di macchina troppo “teatrali”, le “misere” case che sanno di falso, ecc.ecc. Però il musical è un genere che presuppone una perfetta sinergia delle sue componenti. Poiché Mamma Mia non presenta e non sviluppa situazioni “atipiche” (tipo i “recuperi” di tragedie “alla” Romeo e Giulietta come capita in West Side Story, o la prorompente carica “eversiva” dello splendido e per me insuperabile musical-happening The Rocky Horror Picture Show) ritengo sia da considerare un film paragonabile ai cari vecchi musical hollywoodiani anteriori agli anni cinquanta (ossia prima che West Side Story, film del 1961, riformasse il genere). Ma paragonato a questi film Mamma Mia denota palesemente i suoi limiti, tenendo conto che ormai il musical classico (quello che si produce anche in teatro) presuppone capacità poliedriche degli interpreti che devono essere allo stesso tempo attori, ballerini, atleti, acrobati. Nonostante la bravura degli interpreti non è possibile affermare (a parte la superna recitazione della Streep) che i grandi e pur bravissimi attori di Mamma mia possiedano queste peculiari capacità. A parte questo, se si guarda Mamma mia con gli occhi clementi di chi cerca un happening (e non è poco perché in fondo il futuro del cinema dovrebbe risiedere nel tentativo di trascinare il pubblico dentro lo schermo), il film non è un “oggetto” da accantonare. Se questo “oggetto” imperversa da nove anni sulle scene di tutto il mondo (purtroppo non ho visto la versione teatrale), se le musiche degli Abba coinvolgono oggi come trenta anni fa, qualcosa nel musical funziona. I difetti del film sono evidenti, ma non ne compromettono la freschezza e vengono presto dimenticati a tutto vantaggio dell’azione e del coinvolgimento. Mamma mia va visto pensando di essere sul molo di Kalokairi intenti a ballare accanto a Maryl Streep e agli altri simpatici interpreti. D’altronde le melodie sono orecchiabili, l’happy ending viene rispettato, la poetica è senz’altro d’evasione, e un certo tipo di atmosfera magica è riscontrabile in ogni sequenza (la magia dei tre padri come tre re magi che portano il dono al nuovo che sta per nascere; la fonte di Afrodite; una certa “aria” e un certo “profumo” emanato dagli oggetti che fa ad esempio somigliare la falsa soffitta di Villa Donna alla magica abitazione di Cenerentola). Se dovessi paragonare “tecnicamente” il film a Sette spose per sette fratelli (ballerini acrobati, danza, coordinamento, ecc.) decreterei la mesta inferiorità di Mamma mia, ma, tenendo conto che il film non vuole essere un oggetto perfetto, non vuole aspirare a funzionare come un orologio svizzero, ma soltanto organizzare un mondo immaginifico e “orientato” per un pubblico che “vuole” danzare in sala, posso senz’altro considerare questo musical una buona performance visiva, grazie anche alle conosciute musiche degli Abba i cui testi sono stati utilizzati per “costruire” la storia a lieto fine di questo gradevole film.

17 ottobre 2008

Un invito a casa Alexander

La quinta sequenza è una delle più complesse, più elaborate, più contraddittorie e contravvenienti sequenze della storia del cinema: una sequenza in altre parole disturbante perché trascina la gioia nell’incubo, la “polarizzazione” dell’evento nella contraddizione di inquadrature apparentemente confusionarie e antitetiche. L’effetto teatrale tipico delle sequenze precedenti si alterna all’effetto reportage, il grandangolare che deforma lo spazio (in questo caso le stanze e l’ingresso di casa Alexander) si avvicina ai due protagonisti trasformando il volto di Alexander in una maschera tragica e il naso posticcio di Alex in uno strumento fallico che preannuncia l’epilogo. L’apparente calma della casa è mostrata nella tranquillità di una posa teatrale con due quinte: un muro con porta alla sinistra di chi osserva e una libreria posta dietro il Sig. Alexander colto nell’atto di scrivere seduto a un tavolo (ma questa prospettiva sarà smentita da una seguente inquadratura che riallinea, restringendolo, lo spazio). Questa staticità viene accentuata da una carrellata laterale (con abbrivo dopo il suono di un campanello simile all’incipit della quinta sinfonia di Beethoven) che scorre a mostrare il fuori campo, inquadrando il soggiorno in cui vediamo una donna intenta a leggere seduta in una poltrona-astronave. La donna si alza e si allontana uscendo dalla porta posta sul fondale. L’inquadratura seguente (un corridoio con specchi), pur assimilando e riprendendo la staticità della scena precedente, preannuncia già un cambiamento, in quanto lo spazio viene amplificato (effetto Droste) a causa degli specchi posti ai lati delle pareti, illudendoci (il pavimento-scacchiera e la donna in rosso si moltiplicano all’infinito) di percorrere il labirinto degli specchi dei Luna Park. Il gioco inizia e con esso la separazione semantica dell’ultraviolenza nelle sue componenti manichee e drammaticamente inconciliabili. I Drughi, che imperversano tra gli specchi moltiplicandosi in un esercito bianco e gioioso, si proiettano “liberi” verso il loro abisso morale ove alternanza di inquadrature “statiche” (nel senso di inquadrature più teatrali con camera ferma o carrellate laterali) si alternano ad inquadrature “dinamiche” (che trascinano nel centro dell’azione con camera a mano). Superlativa la nona inquadratura con il primo piano di Dim che rotea il corpo della donna tenuta sulle spalle in senso orario, movimento accentuato dalla camera a mano (magistralmente impugnata da Kubrick stesso) che rotea in senso antiorario intorno ai due personaggi, poi interrotto dal primo piano del volto del sig. Alexander tenuto forzatamente a terra da un drugo. Quando giunge il fischio-ciak di Alex per riposizionare i personaggi, seguono le inquadrature più sconvolgenti e “belle” (sì, oso dirlo) della storia del cinema: campo totale di Alex che accenna un passo di danza canticchiando Singin’ in the Rain. La canzone diventa così “musica” diegetica che accompagna la violenza subita dai due malcapitati, mentre nel campo totale il ritmo dei calci e degli schiaffi, che Alex propina all’uomo ancora per terra e alla donna che si trova sempre sulla spalla di Dim, diventa accompagnamento sinfonico della voce. La gioia dei calci dati al marciapiede inzuppato dalla pioggia, che Gene Kelly distribuisce saltellando sulle pozzanghere, si trasferisce in un ritmo infernale nella gioia dei Drughi, nel gusto irrinunciabile alla violenza. Ma l’angoscia di questo apparente caos, questo rimescolamento di metodi diversi nel muovere la macchina da presa, questi contrasti tra riprese teatrali (campi medi e totali) e reportage (primi piani e rotazione della macchina a mano) creano simmetrie ed asimmetrie che oserei definire interne/esterne allo spazio scenico. In fondo davanti a noi quello che tecnicamente sembra lo sguardo in macchina di Alex e che diegeticamente è l’incontro deformato dei due Alex(ander) (il drugo e lo scrittore), nell’immagine in sé, avulsa da ogni raccordo sintagmatico, diventa una penetrazione mediatica. Nell’asimmetria e nella convulsione delle inquadrature (solo apparentemente casuali ma in realtà giustapposte senza lasciar spazio a dubbi e incertezze), dove dominano ritmo delle immagini, equilibrio della prospettiva spaziale e della sua deformazione, si amalgamano due punti di vista allo stesso tempo distanti e (con)fusi: la gioia espressa da una canzone-simbolo del cinema classico, oltraggiata da un uso “moderno”, si spegne nello sguardo del “fratellino” che ricorderà la lacerazione di quella musica. L’immedesimazione che si realizza in un’incontro di sguardi e in una richiesta (“Guarda bene, fratellino, guarda bene!”) e che non persiste (a causa di continue fughe dai personaggi e “uscite” dal pathos della narrazione), tornerà a galla in un’altra sequenza a causa di una canzone che, mentre per Alex il drugo è la gioia incontenibile di Gene Kelly, per Alex(ander) lo scrittore è l’orrore di un momento. Una simmetria che si stabilisce tra sequenze (la stessa canzone) ma anche una asimmetria (il ricordo di quella canzone) che stabilisce un punto di vista. Questo scambio in effetti procura un dolore fastidioso, trascina dentro e fuori la gioia di Alex, fuori e dentro la sofferenza di Alex(ander). Immedesimazione e distanza, coinvolgimento e sguardo asettico, teatro e pubblico separati da un diaframma ma anche coinvolgimento “violento” del reportage che trascina dentro l’azione, dentro e fuori allo stesso tempo, gioia e dolore (vite e morte) temi domina(n)ti dall’ultraviolenza, fusi e confusi nell’estremo suono (gioia-dolore di Alex) dell’Inno alla gioia.




 

10 ottobre 2008

Pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008)

Pranzo di ferragosto è un viaggio nelle pieghe di un mondo troppo spesso evitato, abbandonato ai margini di una bellezza standardizzata e allineata ai canoni medi decretati da una sub-cultura che sta sempre più abbassando il livello del gusto. La vecchiaia è vista come una nuova bellezza, non tanto come un’affermazione del Brutto in quanto antitesi del Bello, ma come un voler conoscere e analizzare un’altra forma del Bello. In tal modo la macchina da presa di Gianni Di Gregorio fluttua davanti ai volti di quattro signore che per motivi “casuali” si ritrovano a trascorre insieme il giorno di ferragosto e che insegnano a vedere oltre le apparenze del “bello” inteso come armonia e simmetria prospettica. In particolare la macchina da pressa si avvicina alla madre di Giovanni (interpretato da Di Gregorio stesso) evidenziando in un primissimo piano la pelle del suo volto ormai annientato dalle macchie e dalle rughe profonde che il tempo ha impietosamente disegnato. Ma in questo volto devastato, su questa pelle da tartaruga, splendono due magnifici occhi che ci sorridono gridando l’amore per una vita non certo eccelsa. Questa donna che conduce una grama esistenza in una Roma finalmente viva, (una Roma che noi tutti vediamo e conosciamo e che non troviamo mai in molti film e in tanta pessima tv) ci prende per mano conducendoci lungo una strada difficile ma necessaria: una ricerca costante e interminabile di conoscenza. Impariamo a conoscere il mondo di questa donna, la sua miseria, e la necessità di ospitare per danaro altre anziane signore, il rapporto anche conflittuale (guarda caso per un vecchio televisore), ma soprattutto un rapporto che presuppone un confronto costante. La macchina da presa si muove nell’appartamento come uno sguardo indiscreto, ma ravvicinato, perché qui dobbiamo avvicinarci per respirare sulla pelle della vecchiaia non essendo più abituati a guardare in faccia la senescenza del corpo. Costretti a subire un’immagine imposta come rappresentazione di vitalità (bellezza = gioventù = erotismo = corpo immortale che non invecchia) abbiamo perso il contatto con il nostro futuro dimenticando una metamorfosi in atto: saremo tutti tartarughe. Questa realtà, che è anche una speranza, viene spesso negata, relegata, ridotta a canone da archiviare. Quando un volto vecchio appare in un’immagine è spesso il volto di un altro ossia di un personaggio minore (padre, nonno, amico) costruito spesso per definire e integrare la psicologia di un giovane e bel personaggio principale. Ma qui il primo piano è anche l’avvento di un nuovo modo di guardare. Queste simpatiche vecchiette, che imparano a conoscersi e (nonostante tutto) a divertirsi a modo loro, sono una speranza per il cinema nostrano (ma questa speranza sarà coltivata?) ma anche un invito a riflettere sull’importanza di imparare a guardare meglio (anche dentro le pieghe profonde della pelle) per scoprire che il cinema nasconde molte altre cose spesso occultate allo sguardo.

4 ottobre 2008

Machan (Uberto Pasolini, 2008)

Machan viene presentato come la storia vera di una falsa squadra di pallamano ma potrebbe essere una storia falsa di una vera squadra di pallamano. In effetti quando a Manoj e Stanley viene in mente, leggendo un depliant su cui è pubblicizzato un torneo che sarà disputato in Germania, di costituire una squadra singalese di pallamano allo scopo di poter eludere i controlli del governo per raggiungere l’agognata Europa, dove “tutte le cose sono più belle” (1), non fanno altro che incidere sullo stato “abituale” del loro mondo mettendo in discussione una norma. Per una serie di circostanze “casuali” (nel rispetto dei meccanismi che regolano il comico) il numero dei candidati-giocatori (e pertanto dei futuri clandestini) aumenta di sequenza in sequenza. In questa prima parte del film la mdp mostra gli slum di Colombo e la grama vita che vi si conduce, ma mostra anche un albergo di lusso frequentato da turisti tedeschi e per contrasto mostra la dignità dei poveri abitanti che non rinunciano alla loro umanità affrontando a testa alta le avversità quotidiane. Non è semplice ambientare una commedia in un contesto di miseria forse più adatto a una trasposizione melodrammatica, perché “ridere” sulla disperazione presuppone allineare l’empatia dello spettatore alle condizioni sociali e psichiche dei personaggi. Intendo affermare che per ottenere un risultato che non trascini il plot narrativo nel grottesco Pasolini ha creato un equilibrio tra i caratteri di questi personaggi (sempre simpatici e divertenti tanto quanto li vorrebbe ad esempio un turista) e i loro tentativi “illegali” per ottenere l’oggetto del desiderio (l’espatrio nella ricca e bella Europa). Non deve essere stato semplice anche se il risultato a volte potrebbe ricordare gli slogan di una qualsiasi agenzia di viaggio. Anche se condizionati dalle esigenze del découpage gli “allegri” abitanti degli slum rischiano di somigliare troppo ai desiderata di qualsiasi occidentale in procinto di partire per Ceylon, ma il limite della commedia coordina un’incognita che dovrebbe rappresentare il risultato matematico del genere comico. Eppure nonostante alcuni difetti intrinseci al genere (e questi tipi di film non aiutano certo a far decollare il comico senza cadere nel grottesco o nel patetico) Machan presenta alcuni aspetti interessati legati soprattutto al senso in più (2) che riesce a trasmettere. Innanzitutto la Bugia che qui non è coerente e congruente come nella commedia degli equivoci, ma mostra comunque la sua importanza in un contesto in cui ogni mezzo è lecito per aggirare le “assurde” regole della significanza burocratica. Per burocrazia intendo una chiusura a tutto ciò che non rientra nei canoni classici della sicurezza, una chiusura alla trasgressione, alla prova stessa, che porta al peccato incurabile, alla perdita del connotato di “indigeno attendibile”. Altro aspetto è la stessa Trasgressione, il voler aggirare le regole senza peraltro trasgredirle veramente, trasgressione inattendibile proprio perché costretta nelle forme canoniche di una comicità a tratti troppo leggera: Manoj, Stanley e i loro amici giocano soltanto ma in fondo accettano il substrato profondo di quelle stesse regole mostrando così di omologare con il loro assenso la forma più retriva del potere: la burocrazia.
Trovo molto più interessante la progressione costante del Falso che non trascina nel gorgo della punizione prima e della redenzione poi, ma conduce all’acquisizione di una libertà (terzo aspetto) che è sempre stata nella mente dei singalesi (e nostra). La libertà non è il fine, il punto di arrivo (Europa), anzi il film si conclude proprio ai margini del vero dramma (e non poteva essere altrimenti per una commedia) innestandosi in aspettative melodrammatiche dovute allo status di clandestini. L’impossibilità (o le difficoltà) di rendere l’aspetto comico (e solamente quello) della disperazione obbliga Pasolini a fermarsi prima del confine. Questo perché la storia è solo una premessa, rappresenta l’antecedente dell’arrivo, e in questa storia la comicità è possibile (ma come abbiamo visto entro certi limiti molto rigidi) soltanto al di qua della raya; mentre il dopo, l’al di là, rientra nella nostra convinzione (una sorta di sostanza magmatica che può e deve essere accesa). Pertanto il Falso come anelito di libertà (almeno quella mentale dei protagonisti), gli oggetti come forme del falso (timbri contraffatti, carta intestata ricostruita al computer, ecc.) oppure come cause efficienti del bene e del male (il tetto di lamiera che viene venduto e l’asciugamani automatico che causa il licenziamento di un inserviente dell’Hotel), ma soprattutto il Vero come ombra costante di una promessa/premessa (la squadra falsa ma in fondo vera). La vera storia di una falsa squadra.
(1) Questa frase viene spesso citata nel film. Cito a memoria perché, avendolo visto una sola volta al cinema, non ricordo i termini precisi.
(2) Edoardo Bruno, Il senso in più, Bulzoni

27 settembre 2008

L'isola (Kim Ki-duk, 2000)

Vedendo questo film ho provato un dolore intenso. Ma la causa non è da imputare alla macelleria dei corpi, alle torture inflitte ai pesci o agli ami ingoiati, ai morti inabissati nel lago. La causa risiede nell’impossibilità di allineare la ricerca di un sostanziale consenso (di pubblico) con la necessità di consumare quel consenso attraverso la “fuga” da uno spazio geometrico e da un tempo scientifico (le coordinate della prospettiva). Intendo dire che il dolore è stato procurato dalla costruzione di uno spazio pittorico in cui lo sguardo si muove con difficoltà, obbligato a sopportare lacerazioni e ferite profonde. Per disconnettere il senso dal legame con una prosa ormai consumata (il racconto sempre identico a se stesso), Kim Ki-duk ha scelto di raccontare uno spazio astratto ossia svincolato dal banale obbligo di definire una lista di situazioni, ma comunque legato ai prodromi profondi di ogni storia: l’amore e la morte. Lo sviluppo narrativo (per altro molto labile) che mostra il rapporto tra Hee-jin e Hyun-Shik, non è una storia di amanti disperati, almeno non solo, ma è soprattutto un procedimento di formazione, un’esperienza mentale. Intendo affermare che le lacerazioni della carne (gli ami ingoiati), il sesso violento (il morso di Heen-jin sul labbro di Hyun-Shik e come corrispettivo i calci di Hyun-Shik sulla vagina di Heen Jin), le torture (il pesce mutilato, la gabbia nell’acqua, gli ami in gola e nella vagina), sono crudi colori presi da una tavolozza non ancora amalgamati e distesi sulla tela. Prima di scardinare le illusioni di un’immagine ingannevole (in quanto scelta arbitraria di chi la propone) bisogna mostrare i pezzi dolorosi di questa immagine, mostrare come questa immagine viene costruita. Dietro una storia romantica c’è sempre una materia (un corpo) che prova dolore. Pertanto il risultato (il film) è la somma di tanti corpi straziati, la giustapposizione di tanti pezzi sanguinanti. Poi, se vedremo anche la superficie confortante, riprodotta contro gli interessi di un rapporto reciproco (spettatore-regista), se la significanza risulterà o meno un rapporto duro, inevitabile, un incontro-scontro tra due anime dannate, questi effetti non rientrano (per mancanza di spazio) nel punto di vista assunto. In particolare ciò che mi interessa sono due aspetti del film: la pittura come sostanza, materia, costruzione delle linee semantiche del plot, la durezza come icona imprescindibile della durata. L’isola è un quadro. La vista d’insieme in campo lungo delle casette galleggianti, “sfumate” dalla bruma che esala dalle acque mattutine, potrebbe essere la sosta, la penetrazione dello sguardo in un dipinto appeso alla parete. Queste pennellate kimmiane iniziano con i colori nitidi, definiti, iniziano con immagini che a guardare bene non sono, nonostante il bellissimo paesaggio equoreo, naturalistiche. L’impatto duro col mondo si trascina attraverso la costruzione delle azioni, dei movimenti, degli eventi visti sempre attraverso una deformazione: campi lunghi o riprese effettuate “dall’acqua”, punti di vista di un altrove situato al di là della lente (vetro, acqua). C’è insomma nel film una sorta di magia oscura, inquietante, che va al di là del perturbante freudiano (1). L’Unheimlich (il Perturbante), per Freud è ciò che porta angoscia, una cosa che si avvicina al nostro ambiente quotidiano (quindi confortante) ma che in realtà nasconde in sé il mistero, l’enigma, la paura dello straniero. L’arte possiede la capacità di rompere l’illusione di una realtà manipolata (dal potere, dalla paura, dal bisogno di non sentirsi soli), di infrangere l’illusione del familiare, al fine di mostrarci almeno la deformazione impalpabile e crudele del reale. L’arte, attraverso l’Unheimlich mette in scena i mostri dell’oggi. Ma nell’Isola il familiare è spezzato sin dall’incipit. Non si tratta più di rompere le catene di un’apparente familiarità delle cose, perché la macchina da presa non mostra il mondo, bensì la pittura. Siamo in una fase ulteriore in cui dobbiamo fare i conti con l’incubo stesso; non l’incubo del mostro materializzatosi davanti ai nostri occhi, ma l’incubo del procedimento che mostra il lato astratto delle cose. L’incubo mostra ad esempio l’invasione della “strega del lago” (2), la “guardiana” delle casette galleggianti e allo stesso tempo la barista che porta caffè e tè ai pescatori; mostra la prostituta che dona il corpo a pagamento, la “sirena” che nuota sottacqua per colpire chi l’ha umiliata e per guardare, sbirciando da sotto la botola dei bisogni corporei, Hyun-Shik intento a fare l’amore con una ragazza. L’incubo mostra la silente Heen Jin che estrae gli ami conficcati nella gola di Hyun-Shik , salvandolo; infine mostra sempre Hyn-Shik mentre s’infila gli ami nella vagina e tira la lenza strappandosi le carni, mostra la “strega” salvata da Hyun-Shik ritornato nella “loro” casetta per togliere gli ami dalla sua vagina. La sofferenza dei corpi non è più la lesione narrativa della carne (causa effetto) anch’essa, nonostante l’orrore, riconducibile al familiare, ma è la durata stessa che s’incarna nella durezza “consustanziale” del mondo. In altri termini il tempo è un prodotto illusorio della speranza, un rimandare la disperazione a una futura consolatoria riparazione. Nell’Isola il tempo ha lacerato le carni, fossilizzandosi nella morte dello sguardo. È come una pennellata più grassa che definisce l’impossibilità di un ritorno. Hyun-Shik rimarrà nel quadro, camminando nella palude, addentrandosi in un canneto, che poi risulterà essere, dopo un reverse-zoom, il pube del corpo nudo di Hee-jin , distesa sotto una coltre d’acqua che ha allagato la sua barca semiaffondata. La donna adesso riposa supina nel suo sarcofago (barca) allo stesso modo dell’Ofelia di Millais distesa dal pittore preraffaellita in una coltre avvolgente di piante acquatiche (3).

(1) Cfr. Sigmund Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino, 1980.
(2) La definizione “strega del lago”, riferita a Heen Jin, è ripresa da: Andra Bellavista, Kim Ki-duk, Il Castoro, Milano, 2006, p.72.
(3) John Everett Millais nel suo dipinto (Ofelia, 1852) [fig. in basso a destra] riprende dall’Amleto di Shakespeare la tragedia di Ofelia annegata nel fiume. Ma è attraverso le parole della Regina Gertrude che veniamo a sapere dell’annegamento, pertanto la tragedia si consuma come assenza:
Amleto (IV,7)
LA REGINA GERTRUDE
… Le vesti
le si gonfiarono intorno, e come una sirena
la sorressero un poco, che cantava
brani di laudi antiche, come una che non sa
quale rischio la tenga, o come una creatura
nata e formata per quell'elemento.
Ma non poté durare molto: le vesti
pesanti ora dal bere
trassero l'infelice dalle sue melodie
a una morte fangosa.

21 settembre 2008

Soffio (Kim Ki-duk, 2007)

Soffio è la dimostrazione che il cinema di Kim Ki-duk si dipana lungo un percorso di conoscenza essenziale. Ma ciò che conta non è la ricerca di un traguardo (ma esiste nel “mondo” un traguardo?) bensì lo sviluppo stesso del percorso (la mappa), la sua consistenza e materia (di cosa è fatto, è una strada di molliche? è un lungo interminabile cantiere che non rispetterà mai i termini del capitolato?) e soprattutto chi lo percorre (pregiudizi? scansioni di altre storie da cercare proprio qui, in questo cantiere? affabulazioni evanescenti?). Guardando i suoi film è possibile temere una certa “maniera” (1) che affiora sulle ultime pellicole kimmiane. Ma la maniera, intesa come ripetizione di un discorso già affrontato, di un certo standard dell’iconico già assimilato e già registrato, non ha senso lungo un percorso che si deforma passo dopo passo. Caso mai la maniera si attesta in altri fortilizi, in altre strutture, in luoghi dove non conta la conoscenza, ma la media statistica del consenso. Secondo me, cercando di abitare dentro i film kimmiani, si percepisce che per un grande autore, un artista, non si tratta di maniera o cliché ma di idioletto(2). Per Eco l’idioletto è un “sistema di relazioni omologo”(3).

“Cosa significa l’affermazione estetica dell’unità di contenuto e forma in un’opera riuscita, se non che lo stesso diagramma strutturale presiede ai vari livelli di organizzazione? Si stabilisce come un rete di forme omologhe che costituisce come il codice particolare di quell’opera, e che ci appare come misura calibratissima delle operazioni che procedono a distruggere il codice preesistente per rendere ambigui i livelli di messaggio”(4).

Caso mai è l’idioletto (regola e codice dell’opera) che potrebbe generare “imitazione, maniera, consuetudine stilistica”. L’idioletto è la legge che governa l’opera, “[…] il diagramma strutturale che presiede a tutte le sue parti” (5). Soffio definisce un punto importante del diagramma. L’idioletto di Kim ki-duk, attraverso le sue opere, attinge forme diverse da identici enunciati. In altre parole l’icona scivola via leggera, si incolla alle pareti trasportando ogni volta le stesse stagioni, l’icona viene strappata e mangiata o trasferita dalla foto al muro della cella, ma non può essere contenuta in una forma perché differisce, ossia rimanda sempre ad altre forme, rinvia la sua entità (6). Questo film è costellato di situazioni limite e contiene innumerevoli riferimenti ai film precedenti. È l’affermazione dell’enunciato, la presentazione ufficiale dell’idioletto, questo diagramma strutturale che per Eco fa sì che un’opera, anche mancante di molti suoi pezzi perduti (esempio un affresco), possa essere assemblata poiché si tratta di “[…] dedurre, dalle parti di messaggio esistenti, quelle che vanno ricostituite” (7). In effetti Soffio contiene citazioni di precedenti film di Kim Ki-duk, ma contiene anche la possibilità per lo spettatore di ricomporre i pezzi mancanti attraverso il riconoscimento di uno stile emergente. Ad esempio in Soffio le stagioni ritornano sotto forma di parodia degenerata. I manifesti incollati al muro da Yeon con tanta precisione danno vita, in quanto scenografie che mostrano la natura, alla rappresentazione teatrale che si enuclea soprattutto attraverso le canzoni da lei interpretate; e mentre gli spettatori “interni” (la guardia e il prigioniero Jang Ji) interagiscono come in un happening, la regia muove le sue macchine da presa (le telecamere di sorveglianza) lasciando scorrere la rappresentazione fino al momento desiderato. Il regista-sorvegliante (lo stesso Kim Ki-duk visibile solo attraverso il riflesso del monitor) monta le sue sequenze interrompendole nel momento più alto dello Spannung proprio come nei serial tv. Queste stagioni di un musical a puntate, attaccate ai muri di un parlatorio (sotto forma di manifesti che mostrano paesaggi bucolici e silvani) sono posticce e false ma non meno di quelle diegetiche “attaccate” sulla celluloide. In altri termini la palese falsificazione del tempo ridotto a rappresentazione teatrale è solo una convenzione valida quanto e forse più delle convenzioni che accettiamo nel momento in cui ci adagiamo su una poltroncina della sesta, settima fila, preferibilmente centrale. Pertanto i brevi musical di Yeon sono sintesi e analisi di un vissuto (ad esempio lo psicodramma di Yeon che rivive il momento in cui da bimba stava per annegare), ma anche “canzoni” composte da stanze(8) sempre uguali e sempre diverse (la struttura della stanza con le sue regole identiche come ritorno di settenari ed endecasillabi e alternanza di rime, ma anche la differenza, nell’ambito dello stesso componimento, con cui ogni volta queste stesse stanze vengono “addobbate”). Il silenzio è un altro stilema tipico di questo cinema, ma stavolta è un silenzio indeducibile, irrinunciabile, che non si interseca e non si esprime attraverso un contatto oserei dire telepatico fra personaggi (Ferro3) ma è un silenzio che diventa cifra stilistica di un linguaggio, in altri termini è un silenzio “rumoroso”, e in parte gestuale (solo Jang Ji e il suo compagno di cella non parlano, mentre Yeon si esprime sia attraverso il silenzio, sia con la parola e il canto). Il silenzio comincia, lungo il suo percorso, a trovare degli ostacoli, a inciampare negli oggetti (il compagno di Jang Ji urla terrorizzato alla vista del sangue che esce dalla gola di Jang Ji). Questi ostacoli rappresentano una delle numerose variazioni nel linguaggio kimmiano. Il suo idioletto, il suo linguaggio personale e singolare, si deforma per adattarsi alla conformità geologica dello spazio e all’entropia temporale. Tutto fluisce. Ad esempio (e sarebbe interessante analizzare il film o la filmografia di Kim Ki-duk da un punto di vista tematico) anche il concetto kimmiano di acqua (9) subisce una deformazione. Nei suoi film (e soprattutto in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera) l’acqua ricopre un ruolo importante, fonte di vita spirituale e passione (Primavera estate...), “bara di freschezza” in cui si immerge il già accaduto (Bad Guy), qui è come un gelido cristallo, un’acqua invernale (il ghiaccio e la neve) che definisce e blocca nel mondo ogni possibilità di riforma (ricomporre un matrimonio, alleviare gli ultimi giorni di vita di un condannato a morte), ma che nel soffio caldo di un fiato che si condensa sul vetro divisorio di un parlatorio diventa un supporto sul quale sigillare una speranza.

(1) Riprendo da De Mauro il senso che intendo per maniera: “Arte, pratica artistica che si fonda sull’imitazione cristallizzata e sulla ripetizione di formule e modi ormai scontati denunciando carenza di ispirazione, di naturalezza, di invenzione”.
(2) Dal Glossario di retorica, metrica e narratologia di Claudia Bussolino (Alpha Test 2006): “È lo stile individuale che caratterizza la scrittura di un autore come voce singolare e personale, l’insieme dei mezzi linguistici di un particolare parlante. È un repertorio linguistico considerato individualmente e non collettivamente”.
(3) Umberto Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 2002, p. 67
(4) Ivi, p.67.
(5) p.68.
(6) Intesa nel senso di insieme delle qualità costitutive dell’ente (cfr. Scolastica)
(7) La struttura assente, p.68.
(7) Mi riferisco in particolare alla stanza come gruppo di strofe e parte fondamentale di un canzone. In questo senso mi riferisco soprattutto alla canzone petrarchesca. Ma mi riferisco anche alla “stanza vuota” ogni volta addobbata in modo diverso.
(9) L’acqua per un ricercatore è composta da due molecole di idrogeno e una di ossigeno e questa è la sua realtà, la sua obiettività che però lo sguardo non percepisce notando solo la sua manifestazione sensibile. A sua volta la mente assimila questa esperienza visiva (ma non solo) in base alla proprie esperienza e/o aspettative. L’acqua assume la sua valenza solo attraverso una mediazione mentale, una ricostruzione. In poesia l’acqua è invece non solo il significante di un liquido ma anche una connotazione simbolica, un segnale che scuote l’animo e rinforza il corpo. È più vera l’acqua del chimico o l’acqua del poeta?

16 settembre 2008

L'arco (Kim Ki-duk, 2005)

Fuori dal tempo e dal mondo, vivendo in un peschereccio ancorato al largo un vecchio e una ragazza conducono la loro vita permettendo a saltuari pescatori di lanciare a pagamento la propria esca in mare aperto. Un estremo avamposto del tempo, un luogo circondato dal mare, dove lo scorrere dei giorni viene mostrato non tanto dalle brevi sequenze notturne (vista del barcone in campo lungo e nuvole oscure con o senza soli che tramontano, sguardi notturni distanti su un rapporto che solo il cinema può strappare alla sfera della pedofilia), ma soprattutto dai giorni di un calendario che il vecchio sbarra con una croce: mancano pochi mesi al giorno del matrimonio in cui potrà avere la ragazza tutta per sé. Ma quando il tempo si dimentica e lo spazio implode (l’immenso spazio del mare annullato dall’angusto spazio del barcone) si può anche bluffare ingannando Kronos con un atto di scrittura, anzi di contro-scrittura, ossia con lo strappo urgente e disperato dei pochi mesi rimasti sul calendario per arrivare al giorno desiderato. Qui (a parte simbolismi vari, allegorie, immagini religiose, sessuali, ecc.) prende campo, destruttura il silenzio, combatte col nostro bisogno di colmare la noia (come se la noia fosse una lacuna da riempire), l’arco multifunzionale, il feticcio universale che in questa assenza temporale mi ricorda l’aleph borgesiano (ossia il Tutto, il Principio e la Fine, l’Alfa e l’Omega) senza esserlo. L’arco è solo la metamorfosi continua di un oggetto che cambia destinazione d’uso in base al sentimento del vecchio (e in parte della ragazza): l’arco che scocca le frecce per proteggere la “promessa” sposa importunata dai pescatori; l’arco che diventa strumento musicale per corteggiare l’amore e il desiderio, rallegrare la vita rarefatta della bambina adottata che non ha ancora conosciuto il mondo; infine l’arco che legge il futuro scoccando le sue frecce contro il Buddha dipinto sulla murata della barca, badando di non colpire l’adolescente intenta a dondolarsi sull’altalena davanti all’immagine di Siddharta. In questo estremo eremo, in questa “isola” galleggiante, si consuma il rapporto nel silenzio ininterrotto dei due personaggi principali (anche qui come in Ferro3 udiamo solo le voci del ragazzo e dei pescatori). In un luogo dove ogni cosa non è quella che crediamo anche la musica ci inganna, mentre le voci dei due protagonisti si annullano diventando una sinestesia (i due sussurrano nelle orecchie). L’inganno dell’arco (oltre a non colpire le presunte vittime e a non colpire la bambina sull’altalena) si definisce quando diventa strumento musicale nell’emettere una musica che sembra diegetica (il vecchio che suona l’arco) ma che poi potrebbe diventare extradiegetica (vediamo che il vecchio ha smesso di suonare) sennonché, quando il vecchio strappa le cuffie del walkman poco prima donato dal ragazzo alla graziosa Yeo-reum Han (1), la musica cessa. Allora si trattava di una musica diegetica? Noi spettatori non avremmo potuto udirla perché relegata nel canale sonoro, tutto privato, della ragazza. Cosa ha ascoltato la ragazza? Appena notiamo che le cuffie non erano collegate al walkman scopriamo con sgomento (o con iperestesia) che la ragazza stava ascoltando una musica extradiegetica, la stessa emessa dall’arco non più suonato dal vecchio. Il mondo qui non ha ancora fatto breccia e il ragazzo venuto da Seoul (il mondo che prima o poi arriva per riappropriarsi del tempo) non ha ancora potuto “mostrare” la sua falsa musica. E in questo set imploso solo l’arco può costruire un intreccio doloroso quanto simbolico, colpire, predire, corteggiare ma anche deflorare. Non sono i personaggi a raccontare (sono muti), né gli eventi a dipanarsi (non accade nulla) ma le forme a catturare e irretire il nostro bisogno di narrazione.

(1) L’attrice che interpreta la ragazza.

11 settembre 2008

Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera (Kim Ki-duk, 2003)

Questo è un film che non si fa afferrare tanti sono i simbolismi religiosi e no, riferiti al buddismo o a improvvise trovate che non possono ricondurre immediatamente a significati o metafore legate alla religione. Certamente la religione nel film è importante (ambientato in un tempio buddista galleggiante su un laghetto incastonato tra i monti). La ricerca dell’equilibrio interiore, il ciclo della vita che si ripete, l’insegnamento dell’autodisciplina, ecc. Certamente. Le letture sono infinite, come le emozioni suscitate dal film. Il film che ho visto io non è solo un “contenitore” di significanza (fondamentale, importante, liberatoria, positiva) o di immagini estetizzanti (formali, equilibrate, contemplative, implementabili), ma è anche una struttura che si devolve, si offre alla percezione di un ritmo che non trascina ma macina (abbandonato ai margini, vacuo, saturabile, espositivo), è una miscela instabile di immagini-sutura (pittoriche, squilibrate, distratte, non collegabili). Sulla riva le ante di una porta che non unisce, come apertura o soglia, nessuna muraglia, nessuna barriera, si aprono, come un sipario, mostrando cinque atti di una pièce teatrale. Una rappresentazione teatrale con scenografia costituita da un tempio e una quinta dove sono disegnati i monti. Il palco è il lago della platea che osserva immobile gli eventi appena sussurrati, che accoglie i corpi e le anime di personaggi colti nell’atto di entrare e uscire attraversando la sala fino alla riva. Questo mondo appare in un perfetto equilibrio dove il senso delle cose non è riposto nella volontà umana o in un disegno divino che ha previsto questa assenza di mondo, ma è soprattutto il tentativo di costituire un fragile ritmo (tra l’altro occultabile) allo stesso modo di una poesia che deve “violentare una norma” (1). Questi equilibri instabili, questo ritmo sempre sul punto di collassare, trascinano l’animo attraverso la sorte di un bambino educato da un maestro nella solitudine di una vallata immersa nella natura, attraverso un percorso di purificazione che non approda in nessuna soluzione consolatoria. “Considerando che la frammentazione propria del montaggio […] è interruzione del flusso visivo da una parte (lo stacco) e designazione dall’altra (l’inquadratura), bisogna ricollocare queste qualità nell’ottica di una «poetica» del cinema allo stato puro, vale a dire una creazione di forme che fa sentire al tempo stesso il mondo e la sua distanza. Si impongono allora due termini: ritmo e rime” (2). Il ritmo impone la sua presenza soprattutto attraverso la partizione in cinque atti del film (le quattro stagioni più una), un’ellissi scandita dai battenti del portone che si apre sul lago mostrando l’isola-tempio galleggiante sulle acque. E ogni atto, ogni stagione, non è solo un salto temporale da un evento all’altro (o meglio, visivamente, da una stagione all’altra) ma soprattutto un salto nel vuoto che “mostra” l’accaduto (il tempo trascorso) attraverso indizi (oggetti o personaggi o animali) che rimandano a un passato occluso, incastrato nel battito-apertura della porta. Per citare un esempio il monaco, quando in autunno vede sul giornale la foto del suo ex-allievo e legge della sua fuga dal carcere dov’era stato rinchiuso per omicidio, viene a conoscenza di un passato scandito in un altrove sconosciuto, affiorato nel tempo “presente” tramite un frammento, un pezzo di giornale. Il tempo è il soggetto del film. Un tempo che si sposta e si mostra anche tramite brevi sequenze, lievi dissolvenze che servono a monitorare l’evento principale dell’attesa inestinguibile. Quando l’allievo omicida incide sul legname della zattera-tempio le frasi scritte dal suo maestro e i due poliziotti passano i colori con dei pennelli sulle incisioni, il tempo restituisce il senso della mortalità e dell’impossibilità di evitare una nuova alba. Il passato e le sue conseguenze proiettate nell’adesso (e gli echi del male che giungono sotto forma di “indizi”) sono macigni pesanti, un fardello che bisogna portarsi appresso al fine di espiare errori passati, presenti e futuri. Quelle che Amiel definisce rime, ossia “ripetizioni sporadiche, similitudini approssimative, sensazioni che aprono alla memoria uno spazio differente e proiettano in altri luoghi sentimenti che tornano a palpitare […]” (3), si innestano nel tessuto filmico come immagini o suoni dirompenti, capaci di “deformare” il senso delle informazioni senza soluzione di continuità. Così, ad esempio, la serpe che ritorna durante le stagioni o il tocco del corpo della donna da parte del giovane allievo durante l’estate e da parte del neo-maestro durante il gelido inverno, o ancora il sasso che il bambino lega in primavera al corpo di un pesce, di una rana e di una serpe così come il sasso che l’altro bambino mette in bocca nei menzionati animali durante la seconda primavera, (oppure anche la donna, morta nell’ellissi, che ritorna – ma è la stessa? – con un fazzoletto sul volto e muore scivolando nel buco del ghiaccio scavato dal monaco per lavarsi le mani), ebbene questi “ritorni” sono rime che restituiscono alla pellicola una struttura armonica (naturalmente le rime in questo film sono moltissime e tutte quante notevoli). Pertanto il tempo come soggetto, il ritmo come scansione del tempo stesso e le rime come “sfogliatura” delle immagini, inducono a leggere Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera come si legge una poesia. In questo modo il senso di questo splendido film, il senso profondo che entra nell’animo e scuote, che violenta la “norma”(4), è la disperazione per un male irrimediabilmente costituitosi (più o meno volontariamente, più o meno casualmente) e per un tempo che trascina gli echi di questo ciclico, ineffabile continuo ritorno (degli eventi che ricompongono errori incolmabili). La preghiera come purezza e (consentitemi questo brutto termine) “ripulitura” dalle scorie velenose, ma anche la natura che assorbe ogni cosa (compreso il male e compresa la preghiera) non aiutano a salvare l’anima. Questo compito spetta alla poesia. Forse non proprio una salvazione, né una redenzione, piuttosto una fioritura di sensazioni, sapori, profumi, ritegni, un percorso di conoscenza che non può e non deve essere abbandonato, ma seguito nelle sue più difficoltose biforcazioni allo scopo di scegliere non tra un gesto o l’altro tra una credenza o l’altra, tra un dolore o l’altro, bensì allo scopo di porre in evidenza l’atto stesso della scelta. In fondo il film è una poesia di scelte e di conseguenze che determinano altre scelte e altre conseguenze.

(1) Jan Mukarovskj, La funzione,la norma e il valore estetico come fatti sociali, Einaudi, 1971
(2) Vincent Amiel, Estetica del montaggio, Lindau, Torino 2006, p.130.
(3) Ivi, p. 132-133.
(4) In questo caso intendo “norma” come standard precipuo e ormai etichettato: lacrime, risa e altri sentimenti già confezionati, presi da vari profilmici e incollati sul supporto.