1 dicembre 2007

Shining (Stanley Kubrick, 1980) - (3/4)

parte terza - IL TEMPO


Quel che conta è l’interazione dei P.d.V., è il circuito stesso, ed è la nostra partecipazione “personale” che attiva il “pulviscolo luminoso sullo schermo”, “l’oggettività del mondo cinematografico”(1). Il nostro sguardo si è proiettato nelle immagini, ha dato “carne ed anima” alle fredde immagini oggettive. Come dice Bruno il film è interpretato ma interpreta, mi indica una storia, mi mostra un paesaggio che debbo organizzare in un racconto per me in un paesaggio per me, ma che a sua volta modifica se stesso, produce nuovi sensi, interpreta; devo in altre parole entrare nel senso, oltre il vedibile, all’interno del film, nel leggibile, nello stravedere. Devo entrare nel salone delle feste intitolato “Le ore che non scorrono” per scoprire di essere sempre stato nell’Hotel, di aver sempre interagito con le immagini del film, di avere sempre “visto” e conosciuto i fantasmi, le visioni a cui nessuno rimane immune (neppure l’unico “conforto” apparentemente senso-motorio, ossia Wendy). Si tratta di scoprire che il tempo scandito dal film è una proiezione della mia mente. Il mio immaginario proietta il bisogno di controllare un tempo diegetico che fugge stratificandosi nel ricordo, ma che qui si fa, come dice Deleuze, puro cristallo, sintesi di passato e presente, tempo che scinde il «[…] presente in due direzioni eterogenee di cui una si slancia verso l’avvenire, l’altra verso il passato […]»(2). E il veggente vede la scissione del tempo attraverso la sfera di cristallo per scoprire all’interno la fusione molecolare dell’eternità (il bagno simile a una capsula in volo verso l’ignoto dove Torrance apprende da Grady di essere sempre stato il portiere dell’albergo), delle date che si accumulano una sull’altra non cronologicamente (il 1970, la festa da ballo del 1921, la costruzione dell’albergo nel 1911) e del tempo del racconto «[…] frantumato anche dall’indeterminata scansione in capitoli (Il colloquio – Chiusura invernale – Martedì – Un mese dopo – Sabato – Lunedì – Mercoledì – Ore 16)» (3).
(1) Morin E., Il cinema o l’uomo immaginario, p. 152.
(2) Deleuze G., L'immagine-tempo, p. 96.
(3) Cremonini, La vita davanti a sé, in “Cinema e Cinema” n° 29 p. 80.

27 commenti:

FiliÞþØ ha detto...

Ho sempre trovato quella tra Gredy e Torrance una delle parti più inquietanti del film...così naturale ma del tutto fuori luogo (e queste sono le cose che più mi spaventano).
Quando guardandolo gli dice "Lei è il custode, lo è sempre stato..." (più o meno così)...il (mio) livello di tensione raggiunge punte massime...

Bravissimo come sempre...
Un saluto

Luciano ha detto...

@Filippo. Provo le tue stesse sensazioni. Il bagno rosso è un luogo "demoniaco" fuori dal tempo. E' l'anticamera dell'insostenibile dove tutto può essere, dove tutto (come dici) è "fuori luogo". Una scena terribilmente "insopportabile".
Ti ringrazio. Ciao

Anonimo ha detto...

Che brividi che brividi!! Attendo con ansia la quarta ed ultima parte ^_-
Ale55andra

M.S. ha detto...

adesso non farti attendere troppo per la 4/4!

mi appassiona come twin peaks! ;)

Deneil ha detto...

adesso voglio la quarta parte..ora che ci penso non ricordavo la divisione in capitoli..altro tocco di classe!

Anonimo ha detto...

quel bagno e il modo in cui è girata la scena mi fa pensare a ciò che diceva Kubrick delle scene, che ogni sequenza è già stata girata e dunque l'idea è chiedersi come sia possibile filmarla in modo del tutto originale. Lui ha sempre fatto questo mi pare.
Tra l'altro Cremonini ha scritto un intero saggio sul film, edito da Lindau, molto interessante.
Tempo fa pensavo al finale di Shining e alla sua interpretazione sempre in negativo: come a dire che l'eterno ritorno in K. non ha la valenza superomistica nietzschiana ma rappresenta invece la sua rivoluzione in negativo/kafkiano. Il tempo ritornante diventa la trappola dell'immobilità, del congelamento di Jack nella sua essenza immodificabile. Però poi pensavo a Kubrick che parlava del film (a jack) come di un film positivo, in fondo parla di fantasmi, della vita dopo la morte.
Se lo si intende anche più in generale, sottolineando il trionfo di Danny e non il fallimento di Jack e se si pensa che Danny è figlio di Jack, un Jack del futuro, un Jack in seconda, una parte genetica di Jack, si potrebbe dire che lo scorrere del tempo e delle generazioni permette comunque all'uomo di uscire dal giogo crudele dell'eterno ritorno della sconfitta. Danny vincendo sul padre segna anche l'uscita dallo scacco per l'Uomo attraverso l'intelligenza, l'astuzia e dunque lo scarto.

Luciano ha detto...

@Ale55andra. La pubblicherò presto, ma i brividi sono tutti provocati da Shining, la mia "analisi" è un tentativo di "leggere" il film da una prospettiva differente. Ciao e grazie.

@Mario. Prometto che non farò attendere. Eh... magari questi post su Shining fossero appassionanti come twin peaks! Grazie. Ciao.

@Deneil. M'incuriosisce sapere se anche nel romanzo c'è una sorta di divisione in capitoli. Ciao.

Luciano ha detto...

@Noodles. Sìììì!!! La tua riflessione è molto interessante e può costituire un ottimo punto di partenza per approfondire ulteriormente l'analisi del film. In effetti l'eterna sconfitta (Jack è sconfitto in partenza perché tra le foto dell'albergo è già compresa la sua immagine) e la rivelazione che lui è sempre stato nell'albergo (ossia Jack è il custode da sempre e forse lo sarà per sempre), e inoltre l'essere immortalato nel labirinto innevato come l'essere stato immortalato in una foto del 1921, questi sono certamente aspetti che rendono la sconfitta (o al contrario il successo) una condizione eterna ed immodificabile. La nuova generazione che si salva?

"Danny vincendo sul padre segna anche l'uscita dallo scacco per l'Uomo attraverso l'intelligenza, l'astuzia e dunque lo scarto".

Sono d'accordo, perché Danny, in fondo non si salva grazie allo shining (potere immodificabile e dono che definisce una condizione), ma grazie all'astuzia (nella quarta parte ho infatti messo in evidenza questo aspetto). Però è anche vero che Danny si salva fuori dall'albergo. Halloran che possiede lo shining non vi riesce, mentre Jack muore fuori dall'albergo, ma dentro possiede la protezione di uno sguardo superiore (siamo noi spettatori o è un'istanza narrativa indefinibile?). Insomma nel Dentro non c'è speranza, perché domina l'Immutabile, mentre nel Fuori (pur nella tempesta e nel freddo) le capacità si annullano, gli ectoplasmi svaniscono. Allora è uno scontro tra Dentro e Fuori? Tra il Cinema che boccheggia e il Reale che, pur essendo indefinibile, presenta comunque aspetti che possono salvare la settima arte? Basta in fondo un po' d'astuzia e basta anche camminare sulle orme abbandonate dal tempo. Caspita Noodles che magnifico scambio di opinioni. Ciao.

Anonimo ha detto...

Be' tutto è basato sullo sguardo, o meglio sull'andare Oltre lo sguardo (di cui lo shining è forse metonomia). In fondo il posto si chiama Overlook hotel. Non mi pare un caso. Se si intende che l'essenza base dell'Hotel è l'overlooking: la magnifica regia di K suggerisce proprio questo, si ha la sensazione che il pdv sia quello... dell'Hotel stesso! Intuizione geniale credo, per sottolineare la sudditanza dei personaggi e dell'Uomo a un'entità superiore. E riallacciandomi a ciò che scrivevi penso: non suggerisce forse anche la sudditanza dello spettatore alle leggi del cinema? e dunque del suo artefice-regista? Ma Kubrick col finale suggerisce anche che si può uscire appunto da questo labirinto e guardare coi propri occhi al film, alla storia e darsi la propria "spiegazione".
Se si pensa poi a quella immagine bellissima di Jack che osserva il plastico del labirinto e poi uno zoom ci permette di scavalcare il plastico, di trasformare la soggettiva di jack in soggettiva più ampia (attraverso jack?) dell'Hotel che guarda fuori, lui si può farlo (ma forse che l'Hotel ha bisogno di Jack-personaggio per attivare la sua visione? o sto vaneggiando mo con tutte queste sovrainterpretazioni? nel caso fermami con un'ascia). Cmq dici benissimo, il dentro/fuori mi pare sia il piano su cui si muova l’intero film. È vero che Danny vince sul padre FUORI dall’Hotel ma è anche vero che fuori ce l’ha trascinato lui. E si torna di nuovo all’astuzia, sebbene forse involontaria o se vogliamo afferrata sull’onda adrenalinica della paura. Ma il finale di Shining m’è sempre sembrato affondare in uno scontro davvero ancestrale, viscerale, naturale, biologico. I due personaggi escono dall’Hotel e anche da se stessi e dai loro ruoli (un padre ucciderebbe forse il figlio?) e regrediscono. Jack – emblematica la sequenza finale in cui ulula scampoli deverbalizzati alla notte – si tramuta in una bestia sanguinaria (Il Minotauro?), forza bruta, vinta dall’astuzia “ulissiaca” del bambino che sottraendosi al padre smette di essere figlio e diventa uomo nella contesta, vincendo sul vecchio. D’altronde, lo sappiamo, il contrasto edipico è uno dei tanti temi ossessivi della cinematografia kubrickiana. E in genere, tocca sempre al padre essere sconfitto (Redmond Barry ne sa qualcosa).
Certo però va considerato un aspetto non secondario. Danny si salva anche perché al suo “posto” chiama a morire Halloran – credo fosse uno dei passaggi dell’interpretazione di Cremonini. Su cui sono molto d’accordo. Halloran è il necessario agnello sacrificale affinché Danny possa trionfare. E siccome è Danny a chiamarlo… la situazione diventa un po’ ambigua, pensando al fatto che Danny possiede lo shining e che potrebbe aver visto la fine di Halloran. La crudeltà dei personaggi di Kubrick si estenderebbe dunque anche ai bambini? Ed è giusto considerare Danny ancora un bambino dal momento in cui inizia la sua contesa con Jack? Specie se consideriamo Wendy come “trofeo” da conquistare per i due contendenti. In fondo è curioso che al centro dei due ci sia sempre lei, sia quando accusa Jack di aver molestato il bambino, sia quando poi invece chiede il suo aiuto. Senza contare che lei sembra l’unica a non avere “manifestazioni”, se non nel finale. Wendy sembra l’isola felice e incosciente che i due uomini si contendono – un po’ come Lady Lyndon (non a caso quasi muta per tutto il film) nel Settecento kubrickiano.
Scusa mi son dilungato ma è davvero un piacere (e un onore discutere con te di questo film, emergono cose interessanti cui non avevo mai pensato, ti ringrazio). Poi devo buttare giù la maschera: non so fare classifiche con Kubrick ma temo che questo film – insieme ad Arancia meccanica e 2001 (lo so è banale mettere questi due ma che posso farci, la passione non si comanda) – sia il mio preferito della sua filmografia.
Ciao.
Noodles

Luciano ha detto...

@Noodles. Lo sguardo di Jack che osserva il plastico, il modellino del labirinto, sembra onnisciente (illudendoci che Jack abbia il potere di osservare Wendy e Danny che percorrono il vero labirinto), ma al contrario si rivela uno sguardo parziale. Il film non è infatti un qualsiasi film di orrore dove il “cattivo”, il “mostro” è ovunque e vede tutto, proprio perché lo stravedere è uno sguardo che non si accontenta della visione precaria del personaggio (precario nel senso che termina con l’ultima bobina del film) ma ha la pretesa di persistere sulla retina dello “sguardo” (ma sguardo di chi? nostro? di una istanza convenzionale, del regista? o sguardo in sé che si nutre della sua stessa capacità di stravedere?). Insomma, non se ne esce fuori, proprio come nei labirinti di Shining: il superlabirinto, l’hotel è anche pieno di trappole (la sala della festa, i fantasmi, il bagno, la stanza 237), sembra infatti luogo “sorto” per bloccare lo sguardo. L’illusione di vedere si perde nei meandri delle stanze.

“la magnifica regia di K suggerisce proprio questo, si ha la sensazione che il pdv sia quello... dell'Hotel stesso!”

Sono d’accordo completamente. Quindi poiché l’Hotel è il superlabirinto, quello di Cnosso, il pdv è labirintico, inestricabile. Non si sa mai chi guarda. Affascinante.

E’ vero, Danny potrebbe aver visto la fine di Halloran e potrebbe averlo chiamato per verificare la sua aspettativa diegetica (come lo spettatore che vuole, che desidera che il film proceda in quel modo e solo se lo fa, se risponde alle sue aspettative lo definisce film “bello”). E Halloran potrebbe avere visto che Danny ha visto la sua fine: altro intreccio inestricabile. Danny lo chiama a sé sapendo che Halloran sa perché Danny lo chiama a sé. Quindi tutti sanno e nessuno sa? Il sapere e lo sguardo combaciano. Nessuno possiede la visione onnisciente. Wendy sembra l’unico personaggio “vero”, come dici tu, oggetto del desiderio, oggetto della contesa, la sola a non vedere i fantasmi. Ma Kubrick ci toglie anche questa illusione. Vince Danny, vince forse la speranza in un futuro diverso, ma vince anche il cinema, perché lo sguardo ha vinto sullo shining. La luccicanza non è nella premonizione, ma nella capacità di guardare oltre, di stravedere, di vedere oltre le apparenze senso-motorie per penetrare e vedere il movimento del tempo. La conoscenza è un percorso che non porta da nessuna parte perché la conoscenza è il percorso stesso. Anche tu devi avere visto il film molte volte. Grande!

P.S. Cremonini è un grande critico. Non ho letto il suo libro su Shining ma quello, sempre suo, su Arancia Meccanica. Quello che scrive è affascinante.

Anonimo ha detto...

Uno dei motivi del fascino del film è proprio questa pluralità di occhi - anche perché poi molto cinematografico no? In fondo la scena finale ci presenta Jack morto... ma con gli occhi aperti! (Stavo pensando Eyes wide shut come a una formula magica... che so simsalabim... ^^ )
torniamo seri: la persistenza dello sguardo sembra travalicare anche la morte. Ma potrebbe essere solo apparenza (se pensiamo a Jack come uomo, ma se pensiamo a jack come parte integrante dell'Hotel quell'immagine diventa quasi una minaccia, tipica dell'horror, un vero topos, ovviamente svolto con eleganza e originalità da Kubrick: l'orrore è pronto a ripartire, non s'è addormentato, i suoi occhi continuano a scrutare...).

"L’illusione di vedere si perde nei meandri delle stanze." Ottima frase, che è poi se vogliamo anche una definizione del labirinto da un punto di vista... ottico, no? (passami questo bisticcio linguistico please! ^^).

Chissà, forse la sconfitta della luccicanza è anche un'ironia intellettuale di Kubrick, una critica sorniona a un cinema che si accontenta degli effetti e dei luccichii sfavillanti e abbaglianti (e l'horror è un genere che accoglie molto questi aspetti) ma smarrisce così il vero concetto del cinema, il guardare, appunto,l lo sguardo e - per essere grande e originale - la capacità di guardare oltre (overlook) in un viaggio oltre i limiti dell'uomo e della visione per forzarne in un'opera d'arte i limiti normali e naturali (dell'uomo). In fondo credo si riallacci a questa "critica" ironica l'uso ostentato della luce in Shining. Credo sia uno dei rarissimi horror inondati da una luce abbagliante (Halloran viene ucciso sotto l'unico lampadario ancora acceso!)

Anonimo ha detto...

attendo anch'io la quarta parte ^__^

Luciano ha detto...

@Noodles. Concordo. Shining è forse l'unico horror girato sotto una luce intensa, abbagliante. E siccome il cinema è l'arte di manipolare la luce, allora in realtà shining (lucentezza) non è solamente la capacità visionaria di Danny, ma anche la capacità visionaria del cinema? E' come se tutti noi potessimo ambire ad acquisire lo shining. Ovvero lo shining è un dono (dalla nascita?), ma non è questo dono che conta (tanto abbiamo visto che Danny si salva grazie ad altre risorse), bensì contano il coraggio, l'astuzia, la capacità di riuscire a "connetersi" con il cinema(con il "testo"), interagire, appunto come dice Edoardo Bruno, riuscire ad entrare in una stanza senza finestre e senza porte. Come entrare nell'interno dal fuori senza oltrepassare soglie? Semplice con il nostro personale shining. Lo shining quindi potrebbe essere la capacità di interagire con il film e di discuterne in modo da proiettare fuori dalla mente (dalla propria immaginazione verso l'altro con uno scambio di opinioni)aspetti del film che non erano ancora stati "visti" (in un film conta spesso di più ciò che non si vede che quello che si vede). Lavorare il film anche dopo (posso dire anche nel Fuori?).

Questo scambio di punti di vista non è già un po' (mi si perdoni la presunzione) una fievole, piccola ma interessante lucentezza?


@Grazie Sabrina per la visita. La quarta parte sarà pubblcata presto. Appena possibile vengo a trovarti sul tuo blog. Ciao.

Deneil ha detto...

no luciano il libro non è diviso in parti come il film..o meglio..è diviso in 5 parti ognuno diviso in più capitoli ma non hanno nulla a che fare con le parti di kubrick..anche per questo credo che king si sia sempre discostato da questa pellicola.

Luciano ha detto...

@Deneil. Ah ecco. Questa ad è esempio è pertanto una delle differenze. Grazie.

domenico ha detto...

uh, ora attendo l'ultima parte, poi mi posso pure guardare il film, che è sulla mensola da mesi ^^
grazie mille, luciano!

Luciano ha detto...

@Grazie a te Honeyboy. Se lo vedi poi magari pubblicherai una tua recensione (mi farebbe molto piacere). Grazie per averci tenuti informati con le tue ottime recensioni sui film che hai visto (e sono tanti) al festival di Torino. Non deve essere stato facile. Ciao.

Anonimo ha detto...

L'interazione con "il testo" in tutte le sue diverse forme artistiche credo sia alla base di molte procedure "artistiche" di kubrick. Shining va oltre l'horror perché ne recupera la matrice ancestrale (anche con una serie di stereotipi: la casa infestata, il cimitero su cui si costruisce un nuovo edificio, la trasmutazione della strega da bella fanciulla in vecchia cadente, il doppio... ecc.). In più lo connette a tutta un'altra serie di elementi narrativi e non facendone risuonare ogni zona con gli elementi più disparati eppure ttuti accorpati: dal mito greco al mito riletto da freud (per non parlare del Perturbante, testo-guida per stessa ammissione di K), King, certo, e dunque la letteratura horror, ma anche una certa indagine "sociologica" sulla famiglia disintegrata che porta avanti un discorso - non a caso credo - affrontato nei due film immediatamente precedenti: i Torrance come evoluzione fantastico-orrorifica - ma sempre trattata con un gusto sardonico ai limiti del macchiettistico - della famiglia DeLarge o della famiglia Lyndon.
Ciò che a me affascina terribilmente - oltre ovviamente a tutta la congerie metalinguistica che abbiamo sottolineato sinora - è anche la capacità di Kubrick di raccontare il nucleo familiare e le sue contraddizioni con tale originalità, trattandolo - fatto non nuovo al suo cinema - come una guerra, i rapporti umani sembrano destinati nei suoi film a un'inestinguibile gioco-forza continuo, sia esso familiare o cameratesco (FMJ, preludio lì al ben più spaventoso scontro col "nemico").

Luciano ha detto...

@Noodles. Interessante l’aspetto sociologico, che per mia cultura e formazione tendo a non approfondire: ossia, diciamo, non so se è il caso parlare di tema, un’istituzione – intendo la famiglia – che attraversa i suoi tre film degli anni settanta (Shining si può considerare sempre anni 70, anche se uscito nel 1980). Esprimere alcune osservazioni sui DeLarge/Lyndon/Torrance come nascita, sviluppo e conclusione di una completa disgregazione della famiglia sarebbe molto affascinante. Le tue osservazioni al riguardo, immagino come proposta di discussione, ma anche di approfondimento, sono oltre che acute anche stimolanti. In effetti con gli anni 70 iniziò quel processo di “trasformazione” della famiglia classica intesa come cellula sacra ed inalienabile, in un qualcosa di più aperto, in un nuovo modello di famiglia che poteva anche infrangere le regole e diventare famiglia allargata. In effetti la famiglia che percorre questa strada che porta da Arancia meccanica, passando per Barry Lyndon fino a giungere a Shining, subisce una lenta e inesorabile disgregazione, dall’indifferenza a l’astio fino al conflitto aperto. L’idioletto di Kubrick in questo caso esce fuori mostrando quelle analogie che percorrono l’intero corpus di un autore. Potrebbe essere un approccio davvero interessante. A me piacciono molto questo tipo di osservazioni. Ad esempio il mio proposito (ma i propositi quasi mai diventano operativi) sarebbe di pubblicare post che affrontano temi riferiti a più film di un autore o di più autori. Sarebbe un lavoro faticoso ed immane. E sai meglio di me quanto poco sia adatto un blog per ospitare questo tipo di elaborati.

Anonimo ha detto...

Secondo me fai bene a non occuparti di sociologia-cinematografica. Se c'è una cosa che mi sta stretta è il modo in cui - in italia, a scuola - si tende sempre a leggere le opere d'arte su un binario storico-sociologico, come se i film i libri e quant'altro fossero nient'altro che "riscontri" storici e non, invece, come sono, esperienze estetiche.
Detto ciò con alcuni film è possibile avviare l'indagine riuscendo a bilanciarsi tra cultura , società e stile. E hai ragione comunque su un punto: la tua idea è interessantissima ma le tesi troppo corpose e complesse credo richiedano lidi meno mordi-e-fuggi quale sono i blog, hanno bisogno di più spazio e anche forse di un portale diverso.
Nel cado di Kubrick comunque, e del tema familiare, avevo virgolettato sociologico perché mi interessava discuterne soprattutto l'evoluzione di un'istituzione-tema (la famiglia) nel percorso poetico del regista. anche perché trovo sempre molto curioso che un uomo che ha vissuto con la famiglia - allargata ma anche molto compatta - per quarant'anni e che sembra ne abbia fatto il fulcro di quella vita privata blindata, abbia poi raccontato sempre delle famiglie in disastro (quella di Lolita è addirittura terrificante, per dire).

Luciano ha detto...

Ah, certo. Avrei dovuto capirlo. Anch’io quando inserisco una parola o frase tra virgolette sospendo per un attimo la denotazione soffermandomi molto più sulla connotazione. Quindi non avevo capito come sulla “famiglia” nei tre film di Kubrick si possa costruire un percorso tematico senza sconfinare nell’aspetto sociologico. Ovvero il tema “famiglia” non mi sembrava pertinente senza una risposta, senza il suo rema. Ma adesso (e ti ringrazio per la tua puntualizzazione) c’è proprio tutto: tema = famiglia; rema= sua evoluzione nel percorso poetico del cinema di Kubrick (non solo anni settanta, Lolita è del 1962). La tua proposta diventa sempre più interessante. Per quanto riguarda l’aspetto privato, ossia il rapporto tra le famiglie dipinte da Kubrick nei suoi film e la sua famiglia, be’ … non saprei. Non mi sono mai interessato della psicologia autoriale, perché quando penso ad un autore immagino l’autore che sta dentro al testo, ossia l’autore isolato dal suo contesto reale e immerso nella sua opera. Probabilmente Kubrick “sceglieva” famiglie in via di disgregazione perché, come tutti gli artisti, in qualche modo sentiva il peso del tempo sopra di sé che “corrompe” (nel senso di deteriorare e/o infettare) gli organismi e le loro istituzioni.

Anonimo ha detto...

Molto probabilmente dopo questa tua attenta e curata analisi rivedrò per l'ennesima volta Shining, e tornerò a rileggerti. Aspetto con ansia l'ultima parte.

Luciano ha detto...

@Tuttocinema. Dovrei pubblicarla prestissimo. Grazie e a presto.

Roberto Junior Fusco ha detto...

Come da pronostico anche la terza parte è un piacere da leggere.
Grady che dice a Torrance che è sempre stato lui il custode dell' Overlook hotel è una delle cose più spaventose della pellicola.

Un saluto!

Luciano ha detto...

@Roberto. Sono d'accordo. Veramente la scena più spaventosa del film. Ciao.

Roberto Junior Fusco ha detto...

Un modo veramente efficace di imprigionare il personaggio nello spazio/tempo.
un saluto !

Luciano ha detto...

@Roberto. E' vero... ma anche per "imprigionare" (o liberare?) la mente di chi guarda. Un caro saluto.