7 novembre 2007

Le valigie di Tulse Luper parte 1: la storia di Moab (Peter Greenaway, 2003)

Sincronia. Reiterazione. Prospettiva. Flusso. Vedere “The Tulse Luper Suitcases part 1: the Moab story” non è come vedere un film qualsiasi, in quanto lo spettatore cessa di essere incarnazione di uno sguardo totalizzante. Anche nei film dov’è tramontata l’istanza narrante onnisciente, e dove la rappresentazione diventa possibilità visiva di altri sguardi differenti dal nostro o dove l’immagine cessa di essere legata al movimento per fondersi con il tempo, non si perde mai completamente la “centralità” dello sguardo. Qui lo spettatore perde totalmente il controllo del film. Sono talmente tante le informazioni (visive, sonore, di scrittura, matematiche, pittoriche, ecc.) accumulate contemporaneamente nell’immagine che risulta impossibile “assorbirle” tutte. Forse conviene non opporsi al flusso, senza cercare una chiave per “decifrare” i codici semantici, ma partecipare alla kermesse caleidoscopica di un cinema che potrebbe segnare davvero (ed io me lo auguro) il prossimo futuro della settima arte. Siamo di fronte a un nuovo modo di concepire la prospettiva. Quella classica, tridimensionale, preferibilmente con un unico punto di fuga (ma anche certe prospettive post-moderne alquanto baroccheggianti con la classica prospettiva d’angolo) sta per tramontare, come sta per tramontare un punto di vista centrale che coincide con il fuori-campo e osserva un cinema classicheggiante (campo-controcampo), ma anche moderno (sguardi che guardano verso un oltre mai inquadrato) o postmoderno (un’entrata nel film attraverso piani-sequenza veloci che s’avvicinano e roteano intorno agli oggetti). Siamo ad esempio di fronte a scene riprese in campo medio (interpretate magari da attori visti di profilo) che condividono sincronicamente il quadro con primi piani di oggetti e/o personaggi, mentre il quadro “viaggia” velocemente attraverso una carta topografica dello Utah. La prospettiva insomma viene messa in crisi attraverso la decomposizione delle location, la destrutturazione di oggetti e personaggi che sono visti contemporaneamente dentro e fuori il contesto (spesso incorniciati in un bianco e nero che scivola verso altri volti, lasciando che il colore riprenda via via possesso della scena), oppure attraverso una ricostruzione teatrale che isola l’ambiente dal mondo delegandolo in una posizione “aliena”(1) (es. la stazione dove hanno rinchiuso il sosia di Tulse Luper oppure i giardini delle casette operaie ricostruiti in teatro in uno stile che ricorda Dogville di Lar von Trier). La prospettiva viene attraversata simultaneamente da un montaggio “interno” all’immagine, una sutura che solo un sarto saprebbe fare sulla stoffa (su quella stoffa e non su quella che seguirà) o una correzione di colore che solo un pittore riuscirebbe ad eseguire sulla tela. Stupefacente ad esempio il montaggio simultaneo dell’incipit: l’immagine dei bambini che scavalcano di corsa i muretti dei giardini, simulando scene della prima guerra mondiale ascoltata nelle storie dei loro padri, viene mostrata (diciamo attraversata) da quelle che sembrano vere scene documentaristiche di guerra con vista di soldati che escono dalle trincee nel loro ultimo assalto all’arma bianca. Insomma messa in crisi della prospettiva non per negarla, ma per rifondarla, ripartendo appunto dal disegno frontale e obliquo (intendo le proiezioni parallele) proprio come è accaduto per secoli nella tradizione mediterranea e cinese (2). Quelle che erano voci e suoni acusmatici tanto cari a Fellini e Godard (ma non solo) qui si allineano contemporaneamente nel quadro. Praticamente sono “uditi” anche attraverso le immagini. Ottica e acustica si ripetono. Come l’immagine viene reiterata attraverso visioni multiple e oblique, così accade al suono: personaggi inquadrati da diverse ottiche, reiterati più volte e in sincronia, parlano uno dopo l’altro nelle diverse prospettive creando come un’onda, un flusso sonoro simile ad una cadenza ritmica musicale, anzi matematica. Le voci dei narratori sono pronunciate da volti incorniciati, simili a piccoli avatar che scivolano lungo l’immagine, sovrapponendosi ai suoni reiterati dei dialoghi prima emersi nel primo piano acustico, poi rintuzzatisi sullo sfondo. Altro aspetto: gli oggetti. Sono preponderanti, abbondano nelle 21 valigie dei tre episodi (Newport, Moab, Anversa), entrano in rapporto con i numeri che a loro volta scandiscono la storia. Ogni cosa è simboleggiata dal n° 92 (simbolo dell’uranio e numero delle valigie che saranno aperte: nella prima valigia vi sono 92 pezzi di carbone). I numeri appaiono ogni volta che Tulse viene pestato. Ma scandiscono anche le immagini nella loro stessa reiterazione continua, quasi ossessiva. Luper sfoglia un libro di anatomia: molteplicità di nasi, occhi, mani, peni, parti del corpo umano, come in un catalogo di un rappresentante. Anche in questo caso, allo stesso modo della prospettiva e del suono, il corpo umano, ridotto nelle sue parti e mostrato in una serie infinita di reiterazioni, diventa uno fra tanti. Le foto dei volti sui documenti chiesti (e mostrati in una lunga serie da Greenaway) durante una perquisizione ai passanti di Anversa evidenziano la serialità degli esseri umani: illusione di unicità affondata nella melma del “reale” e della sua massificazione: siamo numeri, simboli, ebrei deportati nei lager, rinchiusi di prigione in prigione (come Luper), denudati per farci sentire deboli. Anche la scrittura partecipa al gioco della serialità e della reiterazione. La scrittura è ovunque, la scrittura è il nome che Tulse scrive sul muretto del deposito di carbone dove sarà rinchiuso per punizione dal padre, sono gli articoli che scrive sul Times e sul Manchester Guardian e sono le sceneggiature, i diari, i progetti che Luper scrive nella prigione di Anversa (il bagno della stazione ferroviaria), città in cui troviamo anche Floris Creps, sosia di Luper, anch’egli imprigionato (nel deposito bagagli della stazione) n. di cartellino 92. La scrittura inonda il film, come rappresentazione del tentativo di “controllare” catalogando e descrivendo il mondo. Ma essa stessa diventa icona del reale, rappresentazione della sua stessa bellezza. Il film fa parte di un progetto più ampio, è il primo di quattro episodi che non si completano solo attraverso il cinema, perché Greenaway prosegue la storia di Tulse anche con le sue performance, con il sito del film e un libro “Tulse Luper a Torino”. L’arte di Greenaway passa attraverso ogni disciplina (soprattutto scrittura e pittura) collegando il cinema all’evento in sé, inteso come incontro e rapporto con il suo pubblico e come fruizione consapevole e coinvolgimento totale nel suo fantastico mondo. Il progetto Tulse Luper mi ricorda in particolare l’esperienza di Fluxus, progetto che mirava a fondere tutte le arti pur rispettando la specificità di ogni forma d’arte, movimento artistico espressivo, fondato da Maciunas nel 1961, che fu considerato anche un tentativo di superare il confine tra esistenza e creazione artistica.

(1) Con “aliena” intendo dire “esclusiva”, ossia non omogenea alle immagini più “naturalistiche” del film.

(2) Scolari Massimo (Il disegno obliquo. Una storia dell'antiprospettiva)

15 commenti:

domenico ha detto...

sempre un piacere leggere i tuoi post (specie dopo una giornataccia con tanto di esame he he)
le considerazioni sulla prospettiva mi incurioscono assai, questo greenaway mi manca, purtroppo
(e conosco il suo cinema solo di striscio, ma quello "striscio" mi è garbato assai, specie a livello estetico)

Luciano ha detto...

Spero che l'esame sia andato bene. Io l'avevo già visto, ma al cinema è un'altra cosa. A me piace questo modo di fare cinema. Peccato che non vedrò il 2 e 3 episodio ("pizze" bloccate alla dogana brasiliana!) ma dovrei riuscire a vedere il 4. Mah, meglio di nulla. Grazie Honeyboy. Ciao.

Deneil ha detto...

un fiume in piena questa volta eh??da come ne parli sembra davvero ottimo..e innovativo soprattutto..ora non vorrei dire una vaccata ma greenaway è quello de "i racconti del cuscino"..se si ho quel film ma non l' ho ancora visto..poi magari non è quello e io ci faccio il figurone...

Luciano ha detto...

Un tipo di cinema molto particolare, ma interessante e appunto innovativo. Sì, "I racconti del cuscino" è un film di Greenaway del 1996. Allora potresti vederlo e farti un'idea del suo tipo di cinema. Grazie Deneil. A presto.

Lilith ha detto...

Mi hai incuriosita. Cercherò di vederlo il prima possibile.

Luciano ha detto...

Benissimo! Poi mi farai sapere cosa ne pensi. A presto.

Anonimo ha detto...

Dunque, dunque: prima di tutto il tuo scritto è assolutamente splendido (come sempre, del resto), su questo non ci piove. Circa il film ti dico quello che penso in totale sincerità: quando lo vidi provai un senso di profonda e accecante irritazione (e te lo dice uno che ha amato alla follia film come "Compton House", "Lo zoo di Venere", "Il cuoco, il ladro.."). La sensazione che ebbi era di un film "troppo", di una cosa che avesse totalmente smarrito la bussola ed il senso della misura. Ripensandoci mi accadde questo probabilmente perchè il film (ma secondo me è sbagliato considerarlo un film, questo è il punto) sfugge ad ogni tentativo di fruizione. E' altro, è una cosa diversa dal cinema. Arte del futuro? può darsi. Forse soltanto un tentativo estremo (riuscito? fallimentare?) di rinnovamento di un'intera forma espressiva. Sconcertante la cosa che leggo circa gli episodi 2 e 3: bloccate le pizze alla dogana brasiliana! mi interessava tantissimo avere notizie proprio su questi film...mannaggia...comunque grazie per i tuoi post, sempre "illuminanti". A presto

Luciano ha detto...

Irritazione e(aggiungerei) fatica, proprio perché non si ha il controllo del film, proprio come accade nella realtà. Per Greenaway la realtà non è narrativa: la narrazione spetta al romanzo; la vita è fatta di tanti piccoli frammenti che sembrano sempre uguali, ma non lo sono. Reiterazione del diseguale? Forse. Il senso di questi film? Ammesso che siano film. Dico film per semplificare, ma è lo stesso Greenaway (ho assistito poco fa a una sua performance) a dire che il cinema deve superarsi, diventare qualcos'altro (stasera ha proprio detto "circo mediatico"). Tulse Luper più che un film è un progetto, sono d'accordo con te, va visto come un gioco, un esperimento, un nuovo modo, dice lui, di coinvolgere gli spettatori. Sì, siamo "fuori" dal cinema perché l'era del digitale lo esige. Stasera ha parlato di tragedia greca, melodramma, opera lirica come forme di "cinema" che poi, con la tecnologie si è trasformato diventando nel 1895 quello che conosciamo. Adesso un altro cambiamento... Scusami rischio di annoiarti. Lo sai? Ho la sensazione che le nostre opinioni non siano poi così divergenti. Grazie per il tuo prezioso commento. Ciao.

Anonimo ha detto...

Annoiarmi? starei immerso in queste discussioni per ore e ore, non mi annoio affatto!...poi discutere con te è un vero piacere. Ecco, penso che la chiave di tutto stia nell'accettare o meno le complesse regole del "gioco" (perchè di gioco intellettuale si tratta) a cui Greenaway vuole farci giocare... solo il tempo dirà se questo nuovo percorso artistico (che somiglia per certi versi ad un'avanguardia) sarà destinato a sopravvivere o meno. Greenaway ha certamente il merito di tentare una via nuova, e come ogni sperimentatore va applaudito per il suo coraggio. Sui risultati, poi, si può (e si deve) discutere... alla prossima!

Luciano ha detto...

Ieri sera, terminata la performance (e le su performance sono veri e propri happening e infatti si è pure lamentato del fatto che nessuno ha ballato) qualcuno gli ha chiesto di Nigthwatching (un film sotto certi aspetti che sembra "un passo indietro" non solo rispetto a Tulse Luper, ma forse anche ad altri suoi film). Quindi come fa a dire che il cinema è morto e che bisogna superarlo per poi estrarre dal cilindro un film che sembra rinnegare quanto fatto da Greenaway fino ad oggi? Naturalmente il film è un ottimo film, ma non sembra assimilabile al progetto attuale del regista. Ebbene lui ha risposto che Nigthwatching è un'altra cosa, Nightwatching è pittura (!). Ciao e grazie per i tuoi graditissimi interventi.

Anonimo ha detto...

che Greenaway sia pazzo? o più semplicemente un genio?

splendida recensione con splendido sguardo e sdoganature di lampi verbali.

Luciano ha detto...

Ieri ho visto la sua performance a teatro (positivamente sconvolgente) e oggi pomeriggio Greenaway ha incontrato il pubblico rispondendo a diverse domande. Come uomo mi è sembrato arrogante, presuntuoso, egocentrico, irritante, ma anche uomo dalle idee chiare, che sa quello che vuole e quando inizia un "progetto" ha già pronta una sua strategia "artistica". Come artista: un folle genio. Grazie per i complimenti e grazie per le tue sempre gradite visite.

Anonimo ha detto...

"Come artista: un folle genio." siiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!!!!!!!!!!!!

Grazie a te! Non è da tutti i blog dissezionare il "movimento" con cotanto spirito indagatore. Ti seguo molto volentieri.

Luciano ha detto...

Questo vale anche per me. Il tuo blog è un punto di riferimento irrinunciabile.

Anonimo ha detto...

@luciano: ohhh troppo gentile. Grazie.