28 novembre 2007

Cinque pezzi facili (Bob Rafelson, 1970)

La sceneggiatura del film è stata scritta da Adrien Joyce (pseudonimo di Carole Eastman). Rafelson fa parte di un gruppo di giovani registi che, in quegli anni, intendono allontanarsi dal vecchio modello hollywoodiano di fare cinema, in un momento in cui si sente forte la contaminazione europea della Nouvelle vague ed in un periodo in cui si va affermando la figura dell’antieroe. In questo film, il modello di antieroe che prende piede è quello dell’individuo "asociale", che Nicholson saprà interpretare in modo assolutamente convincente. La storia di questo individuo (Robert) è senza tempo, porta con sé il significato di un certo tipo di disagio e di malesseri propri di chi si ritrova a condurre un’incessante ricerca dell’equilibrio interiore.

In Robert la necessità di doversi esprimere senza mezzi termini, liberamente, e questo lo pone in una condizione di continuo confronto con una realtà profondamente diversa che alimenta in lui il senso di inadeguatezza. Per quanto riguarda la struttura del racconto filmico, seppure molto semplice, la scansione narrativa segue un crescendo surreale; emblematica la scena in cui Robert, bloccato nel traffico insieme ad un collega-amico, scende dalla macchina ed inizia a gridare, poi salta sul retro di un vecchio furgone che trasporta un pianoforte e comincia a suonare la Fantasia di Chopin i Fa minore, ne è talmente preso che viene trasportato via dal furgone mentre abbandona la via principale. Le reazioni esasperate di Robert ci aiutano a capire il personaggio, l’impossibilità di potersi identificare o integrare in un qualche gruppo predefinito lo rende inquieto ma nello stesso tempo lo spinge a staccarsi da amici e da affetti. La fuga continua non assume il significato dell 'abbandono, per Robert il viaggio è puro istinto nella continua ricerca di una dimensione a lui più consona nella quale poter vivere serenamente.
Una curiosità: La versione originale del film si apriva con una sequenza che mostrava Robert da piccolo con un libro di esercizi per pianoforte intitolato "Cinque pezzi facili", eliminare questa sequenza (premessa) ha dato la possibilità al regista di rivelare il passato di Robert confrontandolo continuamente con gli eventi vissuti nel presente.

24 novembre 2007

Shining (Stanley Kubrick, 1980) - (2/4)

parte seconda - IL DOPPIO


Prima della sequenza del breakfast allo specchio abbiamo già assistito ad uno “scambio” molto più complesso. Abbiamo infatti visto Danny che dialoga allo specchio nel bagno della sua abitazione con il suo “doppio Tony, il sosia che vive nella bocca di Danny, tipico enunciato perturbante freudiano, istanza formatasi nell'io come critica e osservazione di se stessi. Secondo Freud infatti il perturbante acquista ancora più forza nel sosia proprio perché il familiare si è trasformato in "censura, rimozione, coercizione". Entriamo nel bagno dove scorgiamo il bambino di spalle che dialoga osservando il suo volto riflesso nello specchio (inquadrato dalla macchina da presa), ossia l’immagine virtuale di Tony che si è attualizzata(1) relegando Danny nel “mondo”. Quando l’immagine di Tony-Danny occupa l’intero schermo, avviene qualcosa di imprevisto: Danny si materializza nello specchio, scambiandosi con Tony, nel momento in cui il terrore comincia a trasformare il volto del fanciullo. Non è più Tony attualizzato nello specchio che parla con Danny, ma è Danny stesso nella sua realtà all’interno dello specchio, che osserva. Il suo occhio si apre sul visibile, sull’inconcepibile che non può che trovarsi dalla parte di chi sta osservando. Danny è terrorizzato dallo sguardo dello spettatore che non è altri, nel controcampo, che un flusso trascendente e incontenibile, ma anche terrorizzante (il corridoio allagato da una valanga di rosso-sangue e l’apparizione quasi istantanea delle due gemelle). Con le gemelle si ha inoltre l'incarnazione stessa del doppio che prende vita affiorando direttamente dall'orrore, ossia da una istantanea, una foto congelata nel tempo, provenuta dal passato (o dal futuro?) di due bimbe, immagine che sappiamo inviata dagli incubi dell'infanzia del mondo (e dell'uomo). Le immagini si susseguono in sequenza e dopo il volto di Danny nello specchio, il corridoio col rosso che scroscia e le due gemelle, abbiamo ancora il volto di Danny avvolto in una quasi oscurità (non più lo specchio) e ancora il sangue che inonda lo schermo oscurandolo. La visione di Danny, lo shining, va oltre il visibile, oltre gli stereotipi che utilizziamo ogni giorno per riconoscere le cose, oltre quelli che Deleuze definisce “cliché”, ossia le immagini senso-motorie delle cose che ci rendono solo lo schema abbozzato della cosa stessa. «Le situazioni quotidiane, come pure le situazioni-limite, non si segnalano per qualcosa di raro o di straordinario. È solo un’isola vulcanica di poveri pescatori. È solo una fabbrica, una scuola… Passiamo a fianco di tutto questo, anche della morte, anche degli incidenti, nella nostra vita abituale o in vacanza».(2) Non è più possibile tollerare, sopportare le immagini come oggetti banali del quotidiano, appendici del nostro essere, il mondo che fugge, che corre, la sua apparente superficialità. Bisogna farsi veggente per cogliere l’intollerabile, ciò che sta oltre lo specchio, ciò che sta oltre noi stessi, dietro le apparenze, bucare i “cliché”. Lo sguardo di Danny terrorizzato che sperimenta l’orrore del mondo (ciò che nasconde l’Overlook Hotel) ricostituitosi al di qua dello specchio in un vuoto, in una rarefazione dell’immagine, viene come assorbito dall’impenetrabile, un luogo dove il senso si apre all’infinito, sfuggendo a qualsiasi determinazione. In questo mondo rarefatto il suo sguardo trascina anche il P.d.V. di chi osserva. Ovvero è il P.d.V. dello spettatore che si fonde con lo sguardo di Danny, senza immedesimarsi. Si instaura un rapporto, una relazione tra ciò che vediamo e ciò che è visto. Lo sguardo vaga in una continua indeterminazione, sospeso nel vuoto, cercando di andare oltre, senza mai soffermarsi su un dato certo. La visione della stanza “237” ci trasporta in un labirinto di sguardi, anzi è il labirinto della nostra mente con i suoi bisogni, terrori, desideri che trascina continuamente le immagini che si susseguono. O meglio è la memoria che «[…] ricostruisce il ‘falso’ movimento che la mente ricompone nell’immaginario […]».(3) Nella “237” l’avventura dello sguardo si dipana in un percorso circolare, vi è un continuo transfert di punti di vista: la camera inquadrata mentre si apre la porta sembra una soggettiva del regista (ma non dimentichiamo che questa presunta soggettiva potrebbe essere la “visione” di Halloran che “sente” ciò che Danny, con la bava alla bocca, ha appena “visto”), ma invece scopriamo una mano che apre la porta del bagno e nel seguente controcampo vediamo che si trattava di una soggettiva di Jack Torrance. Nel prosieguo della sequenza i P.d.V. si accumulano uno sopra l’altro formando vere e proprie pile di sguardi: Jack entra nel bagno e vede una donna nuda che va verso di lui, i due si abbracciano, si baciano fin quando lo sguardo di Jack spaventato osserva dinanzi a sé le loro immagini riflesse nello specchio dove, ancora nel virtuale che si attualizza, la donna giovane è diventata una vecchia in via di decomposizione. Ma lo sguardo di Danny si sovrappone a quello di Jack, vede la donna vecchia immersa nella vasca da bagno, mentre dal punto di vista della vecchia che cammina ridendo si vede lo sguardo terrorizzato di Jack che indietreggia e nel controcampo che segue Jack vede la vecchia che gli va incontro, mentre Danny è terrorizzato dalla “vista” della vecchia che esce dalla vasca da bagno. Siamo di fronte ad una moltiplicazione dei P.d.V. e uno sguardo assoluto e dominante (onnisciente) non è determinabile. Si forma come un circuito che collega gli sguardi dei personaggi e dello spettatore, senza inizio né fine, dove ciò che conta non è la logica dell’evento (Danny ha visto quel che ha visto o la sua veggenza si sta formando adesso attraverso lo sguardo di Torrance? E con la sua visione anche quella di Halloran?)



(1) Usata nel suo significato filosofico di rendere reale, riportare in termini moderni, attuali, reali.
(2) Deleuze G., L’immagine-tempo, P. 31.
(3) Bruno E., Dentro la stanza, p. 49.

21 novembre 2007

Shining (Stanley Kubrick, 1980) - (1/4)

parte prima: LO SPECCHIO


Una delle prime scene di vita familiare all’Overlook Hotel mostra Wendy Torrance mentre spinge il carrello del breakfast dal corridoio alla camera dove, nella successiva inquadratura, la macchina da presa si sofferma ad inquadrare Jack coricato sul letto. Quella che ad uno sguardo superficiale sembra un'oggettiva si trasforma quindi in qualcos’altro: un reverse zoom scopre l’immagine riflessa di Jack allo specchio, mentre Wendy fa il suo ingresso col carrello per uscire subito fuori campo ed entrare nell’immaginario dello sguardo, là dove si trovano il Jack Torrance "originale" e il Punto di Vista (P.d.V.) dello spettatore. Infine lo zoom riporta in primo piano lo specchio che adesso riflette Wendy e Jack, e l’inquadratura si chiude così com’era iniziata. L’organizzazione dei P.d.V. è molto complessa. Innanzitutto quella che sembrava un'oggettiva potrebbe essere una soggettiva in quanto il P.d.V. dello spettatore coincide con quello di Jack Torrance (Jack che osserva la propria lingua), ma in un primo momento Jack non poteva vedersi, in quanto stava dormendo coricato sul proprio letto. Allora è lo spettatore che osserva Jack (e in seguito anche Wendy) stando nello stesso identico punto di vista di Jack, ma senza condividerlo. Lo spettatore è dentro e allo stesso tempo è fuori Jack Torrance. La visione si fa ambigua, diventa impalpabile. In questo caso la rappresentazione classica entra in crisi aprendosi sull’imponderabile, sui “buchi neri del senso”. Potrebbe essere una “soggettiva senza soggetto”, dove ci troviamo di fronte ad un continuo scambio tra “spettatore che guarda il film e personaggio che guarda qualcosa” oppure ad uno slittamento dei due sguardi uno sull’altro, quello che Bernardi definisce “passaggio in soggettiva”, dove lo sguardo soggettivo e quello dell’autore si fondono in un unico piano sequenza. Ma l’immagine virtuale di Torrance e Wendy riflessi nello specchio spinge lentamente fuori campo l’immagine attuale dei due personaggi, via via che la macchina da presa si avvicina allo specchio fino ad entrarvi dentro. E ciò che prima era reale (Wendy e Jack) adesso diventa virtuale; i ruoli s’invertono o meglio erano già invertiti sin dalla prima inquadratura, perché solo in un secondo momento, grazie al “reverse zoom” che ha allargato l’inquadratura mostrandoci i riflessi di Wendy e Jack, ci siamo resi conto che i personaggi non erano quelli che credevamo, ma solo i loro corrispettivi virtuali. Quella prima inquadratura dentro lo specchio, quelle “ombre” opache dei “veri” coniugi Torrance erano limpide essenze, sicuramente più “reali” dei coniugi ricacciati nel fuori campo; lo spettatore deve immaginarli, quelli cacciati via dal Paradiso, mentre questi, che anche adesso sono solo dei riflessi nello specchio, sono entrati nel campo del visibile. Questa immagine che Deleuze definisce immagine-cristallo costituisce uno “scambio”; virtuale e attuale, opaco e limpido si confondono almeno finché il contesto non risulta preciso e solo quando la macchina da presa “esce” dallo specchio le condizioni si ristabiliscono e i riflessi di Jack e Wendy riacquistano la loro opacità. In un primo momento potremmo pensare ad un confine: il volo radente sul lago, il “maggiolino” che percorre le strade tra le montagne, l’albergo immerso nella smobilitazione generale, il cuoco che accompagna Wendy e Danny a visitare le cucine, erano il lato limpido, la zona rassicurante e razionale, contrapposto al lato oscuro, imprevedibile e irrazionale della sequenza dello specchio. Un’entrata nello specchio come nel mondo di Alice, un confine al di qua e al di là del reale. Ma lo sguardo iniziale col suo volo radente sopra il lago, che sfiora le rocce e le foreste seguendo il “maggiolino” diretto all’hotel, è già l’interno dello specchio. È, per usare un termine del Casetti, un’oggettiva irreale : “Tu vedi dal mio punto di vista”. Ma allora chi osserva il panorama da un immaginario elicottero, nell’inquietudine del Dies Irae di Liszt (suonata da Carlos col sintetizzatore)? Chi insegue il triciclo di Danny che scivola sui tappeti e sui colori dell’Overlook Hotel?

19 novembre 2007

The man with the beautiful eyes (Jonathan Hodgson, 1999)

Animazione realizzata da Hodgson e tratta dall'omonimo poema di Charles Bukowski, in cui un gruppo di ragazzini scova una strana casa con un giardino incolto in cui possono giocare. Nonostante i loro genitori li avessero avvertiti di non avvicinarsi mai a quel posto, i bambini ne vengono attratti finché un giorno incontrano il padrone di casa, un alcolista, che li saluta in modo cordiale. I bambini lo vedono come un personaggio romantico in netto contrasto con i loro genitori, ossessivamente orgogliosi della propria casa. Tutto qui!
Quello che ne scaturisce riguarda l’eterna lotta tra i benpensanti e gli “sperimentatori”, tale contrasto inizia già nell’età della fanciullezza quando sentiamo quell’innata necessità di creare qualcosa di nuovo, qualcosa di mai esplorato e di mai provato. Presto o tardi questi moti devono soggiacere ad un certo tipo di EDUCAZIONE, che qualcuno ama definire come il metodico conferimento di principi intellettuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell’individuo e della società. Tale definizione rende gli adulti, che vi restano meccanicamente intrappolati, delle persone sospettose, piene di pregiudizi e con il costante timore del “diverso”; contrariamente i bambini possono ancora vedere luminose meraviglie attraverso le pessime cose.

Vale inizia la collaborazione con cinemasema

Sono felice di annunciare che da oggi "cinemasema" diventa un blog a due voci. Infatti Valeria, una mia carissima amica cinefila, entra a far parte dell'équipe. Mi reputo fortunato che Vale abbia accettato di scrivere su "cinemasema". Infatti ritengo che più "voci" contribuiscano a dare una prospettiva più profonda e obiettiva. Per questo motivo devo ammettere che amo navigare per blog cinefili, appassionandomi anche per le recensioni che non concordano con le mie. E' dal confronto con gli altri e (perché no?) pure dalle civili e rispettose (anche se appassionate) discussioni che può formarsi e crescere l'amore per il cinema in particolare e per tutta l'arte in generale. Un augurio di buon lavoro a Vale. Con ogni probabilità il nome del blog subirà una lieve modifica. Tra poco il suo primo lavoro. Grazie a tutti per l'attenzione.

17 novembre 2007

Face/Off - Due facce di un assassino (John Woo, 1997)

L’agente FBI Sean insegue Castor, un criminale terrorista, e quando finalmente lo cattura, all’insaputa di Castor ridotto in coma in seguito ad un incidente, Sean riesce a prendere le sembianze del suo odiato nemico sottoponendosi ad un complesso intervento chirurgico: il trapianto del volto. Lo scopo è di infiltrarsi nella malavita per avere informazioni su una bomba che sta per scoppiare in un luogo segreto e molto frequentato. A sua volta Castor, svegliatosi dal coma, riesce rocambolescamente a prendere le sembianze di Sean. La trama è semplice, ma presenta un’originalità impressionante. Il film infatti non è solo un excursus sullo scambio di personalità e conseguente scambio della famiglia, o emblema dell’eterna lotta tra bene e male che induce a riflettere su quanto bene sia contenuto nella mente malvagia di Castor e quanto male sia invece capace di influenzare il “buono” Sean. In effetti sorge il dubbio che Castor come padre sia migliore di Sean, essendo capace, almeno nella prima parte della “convivenza”, di dialogare, di entrare in sintonia con la figlia adolescente e con la bellissima moglie; ma Sean è forse migliore di Castor nella parte del terrorista capace di “trattare” con la donna di Castor e di proteggere il figlio di lei, un bambino coetaneo del suo figlioletto ucciso da Castor anni prima. Il film è pregno di messaggi ed è possibile analizzarlo sotto vari aspetti. Face-Off è un film che per funzionare deve instaurare un gioco perverso con lo spettatore. O meglio: il film ha bisogno di uno sguardo "alienato". Infatti il presupposto dello scambio della faccia è una regola fondamentale per invertire i ruoli degli attori (Travolta e Cage) come se coesistessero due film in uno in cui Travolta interpreta alternativamente la parte del buono e del cattivo e in cui Cage fa la stessa identica cosa. Ma non è sufficiente. Lo sguardo-complice deve sottostare a un’altra imposizione: la capacità di credere nell’invisibile. Ma non nel senso di (non)visibile, come assenza, oppure (anti)visibile, come presenza celata, ma nel senso di (condi)visibile, ossia visione unitaria. Due attori che si scambiano le facce (e quindi anche le teste) sono entrati nello specchio: essendo uno la nemesi dell’altro, hanno imparato a conoscersi, ma per fare questo, come direbbe Rimbaud, hanno dovuto trascorrere la loro "stagione all’inferno". In realtà nessun effetto speciale possiede la capacità di illudere come la convenzione. È convenzionale accettare lo scambio perché lo sguardo non osserva Travolta o Cage ma osserva i personaggi che nel cinema sono l’imago del corpo, la parvenza impalpabile (ma comunque sempre di un super-corpo dinamico) che scivola nella nostra mente permettendoci, grazie alle tante ellissi, di ricucire i vuoti. L’imago angelica o demonica dalle sembianze per definizione impalpabili ma evidenti (si notino gli sguardi che si trasformano con lo scambio delle personalità) dimostra l’adorazione per le evanescenti entità che la settima arte proietta sotto forma di luce sulla tela distante e imponente. La complicità dello sguardo (voyeurismo che presuppone rispetto delle regole) condivide con le essenze l’accettazione di un invisibile che non è nemmeno supportato da effetti speciali (quelli sono lasciati agli scontri al ralenti). Non rimane che interagire con lo specchio, cercando anche la quadratura del cerchio, lo scontro all’interno, là dove è tutto possibile, dove Sean/Castor ha imparato le regole del nonsense, come Alice ha imparato a conoscere l’ambiguità del mondo e del linguaggio (1).

(1) Conosci le lingue? - chiese la Regina Rossa. - Come si dice in francese « violin­-di-di »? -
- « Violin-di-di » non significa niente - re­plicò Alice seriamente.
- E chi ha detto che significhi qualcosa? - disse la Regina Rossa.
Alic
e pensò che questa volta c’era un modo per togliersi dai pasticci.
- Se tu mi dici cosa significa « violin-di-di » - esclamò trionfante - io ti dirò come si dice in francese! -
Ma la Regina Rossa si irrigidí sdegnata e dis­se: - Le Regine non mercanteggiano -.

14 novembre 2007

The Tulse Luper Vj performance event (Poggibonsi, 9/11/2007)

Lo spettacolo dovrebbe iniziare alle ore 21 ma lui arriva in ritardo di venti minuti. Poco male. Nel frattempo arrivano i soliti ritardatari che si siedono tranquillamente nei loro posti prenotati. Ma ecco un inconveniente: ho prenotato 2 posti una settimana prima (due poltrone da 20 euro cad.) J1 e J2, ma si sono accorti che sono troppo vicini a due proiettori orientati in alto, verso due schermi di medie dimensioni posizionati sopra le nostre teste. Ci retrocedono alla fila M (M2 e M3), anche altri spettatori, appena arrivati, vengono mandati più indietro. Eccolo, arriva. Applausi. Una breve presentazione dell’organizzatore. Greenaway spiega brevemente di cosa si tratta sottolineando che per la prima volta (su circa una trentina di spettacoli di questo genere) gli spettatori sono obbligati a stare seduti per un’ora, tanto dura lo spettacolo multimediale. In fondo alla sala dominano tre schermi allineati al posto del classico schermone cinematografico, mentre altri due sono stati posizionati sopra le nostre teste. Ci sono anche quattro Tv LCD, ma non risultano interessati dalla performance del regista mostrando solo scene fisse che cambiano ad ogni nuovo episodio. Prima di salire tra di noi (la presentazione è avvenuta sul palco del teatro da 600 posti) dice che chi lo desidera può ballare. Si comincia. Greenaway si posiziona alla sua consolle: un grande monitor, credo al plasma, che non è altri che una moderna consolle di regia dove si scelgono le immagini “toccandole” per trasferirle sui tre “rettangoli” posizionati nella parte alta, e da qui ai tre grandi schermi della sala (i due in alto sono cloni dei due schermi laterali). Lui si mette a sinistra guardando verso il proscenio, alla sua destra il Dj Radar osserva un piccolo schermo su cui scorrono le immagini “toccate” da Greenaway, permettendogli di montare il “suo” sonoro grazie ad una apparecchiatura da Dj (ammetto di non essermi soffermato ad osservare gli strumenti). Spente le luci, sugli schermi scorrono, apparentemente in modo casuale, le sequenze della trilogia di Tulse Luper, rispettando, ma non del tutto, l'ordine cronologico della sceneggiatura (dalla valigia 1 alla 92) e rispettando anche certe simmetrie che si ripetono (credo) ad intervalli regolari. Guardando gli schermi e lasciandomi andare al gorgo ineffabile delle immagini m’accorgo di una "ritmica" impressionante, di un ritorno uguale del disuguale. Il sonoro è in inglese, ma non importa. Siamo davanti a qualcosa che va oltre il cinema, qualcosa che somiglia alla video arte, ma che secondo me, ripensandoci adesso dopo alcuni giorni, non è proprio video arte. La cosa che mi ha impressionato (descrivo le mie sensazioni) è la trasformazione lenta e costante del mio sguardo in uno sguardo-altro, un vedere che assorbe le immagini come gioco esterno inafferrabile. Mi spiego meglio: non è stato come vedere l’esterno dall’interno, ma come vedere l’interno dall’esterno. Lo so, non mi sto spiegando. Insomma se lo sguardo fosse la nostra voce, è come se avessi udito la mia voce dall’esterno. Ma tutti sappiamo che siamo gli unici a sentire la nostra voce dall’interno che è differente dalla nostra “vera” voce percepita dagli altri, proprio perché non ascoltiamo con le orecchie ma con la gola. Con l’immagine invece non è così: la nostra visuale è limitata a quella porzione di mondo che si posiziona davanti ai nostri occhi: vediamo l’esterno, ascoltiamo l’interno (mi riferisco alla nostra interiorità). Il caleidoscopico ritmo simbolico-musical-matematico ha riflesso il mio sguardo verso me stesso rigettandolo nel mio interno. Lasciandomi andare al flusso delle onde visivo-sonore, il mio corpo galleggia sulla cresta di un interminabile adesso, e lo sguardo, piegato inesorabilmente dalla luce, non riesce più a controllare diegeticamente le immagini, riflettendosi in esse come sguardo-iconico (nel senso di sguardo che non decifra ma che vive). Forse un happening, un coinvolgimento metafisico, come uno sguardo-anima che si eleva ad osservare ME STESSO, ovvero l’immagine-idea che mi sono fatto della performance, rivelando la mia egocentrica visuale e quindi smascherando la presunzione di luogo (io che da un luogo vedo) annullando il punto di vista. E in cambio? Una condizione immanente. Come essere colpiti da uno sguardo che conosci, un occhio, un vedere dall’esterno il tuo stesso interno, mescolandoti, contaminandoti con i riflessi di Tulse Luper. Parafrasando Rimbaud: "Io sono Tulse Luper", ma non per identificazione narrativa, per trasporto emozionale, bensì per allontanamento, privazione, perdita della organicità, perdita della certezza del proprio sguardo. Il risultato è stato un completo smarrimento e una non-condizione. Ma non come in un sogno, non come nel mondo onirico immaginario, ma come in un reale-altro, una realtà che non c’è ancora e che forse non ci sarà mai, un reale alieno, distante, frammentario, impalpabile, evanescente, ma (cavolo!) reale. Scusatemi, ma non so spiegarmi. Mi arrendo all’evento e dico che non serve a nulla parlarne. Altri avranno avuto altre sensazioni. Greenaway ringrazia. Si lamenta del fatto che nessuno ha ballato. Forse avremmo dovuto farlo. Non credo. Almeno non volontariamente, ma solo se il nostro corpo così avesse deciso. Non è successo perché abbiamo vissuto il momento esperendolo in tre dimensioni (più una quarta lineare e monotona) e il corpo è riuscito ancora una volta ad essere dominato dalla gravità. Pensiamo in modo tridimensionale, ma dovremmo farlo almeno in modo quadridimensionale. Il giorno dopo Greenaway ha dato di stupido ad un cinefilo che gli aveva chiesto se non ritenesse questa performance più vicina alla video-arte che al cinema. Greenaway si è indignato per questa "stupida" domanda, perché per lui finché continueremo a creare dei confini non potremo percepire veramente il momento estetico. Ma come ho detto la video arte è un’altra cosa. Senza disturbare Beuys o Godfrey Reggio o Nam June Paik, Bill Viola, Cindy Sherman, basta pensare ai recenti Matthew Barney e Tony Oursler; o al nostro Stefano Cagol. Basti pensare ad esempio ai magnifici film sperimentali di Barney: Cremaster o a Drawing Restraint 9, realizzato in parte in collaborazione con la moglie Björk. In questi video (ma il mio giudizio è molto riduttivo, perché fra autore e autore, video e video vi sono differenze abissali) si ha un lento passaggio dalla video-arte al cinema sperimentale (in particolare con Barney). Allora mentre il cinema viaggia verso la video-arte, la video-arte prosegue in direzione opposta? Allora ha ragione Greenaway? Sono confuso, indeciso, incerto, dubbioso. Benissimo. Non è proprio questo il compito della video-cinem-arte?

Qui sotto: Alcune scene di Cremaster di Matthew Barney






11 novembre 2007

Nightwatching (Peter Greenaway, 2007)

Nightwatching non è identico agli altri film di Greenaway. In verità, facendo attenzione, nessuno dei suoi film è copia dell’altro, ma questo è proprio differente, perché, come ha affermato lo stesso regista, questo non è un film sulla vita ma sulla pittura, su cosa sia la pittura e sul rapporto tra pittura e realtà. Non poteva uscirne un film frastagliato, composto da mille frammenti, caotico, inafferrabile e non riducibile a modello del reale, proprio perché l’arte (la pittura) è già di per sé una interpretazione, o meglio, una rielaborazione del reale. A Rembrandt, già ricco e famoso a 23 anni, viene commissionato un ritratto dalla compagnia del capitano Cocq della gilda degli Archibugieri. Finita la guerra con la Spagna i mercanti arricchitisi con la guerra volevano farsi ritrarre travestiti da soldati nel sempre identico quadro di ampie dimensioni. Ma Rembrandt, dopo l’uccisione di uno dei personaggi del quadro scopre la trama del delitto lasciando gli indizi dell’orribile reato sul dipinto che solo nel 700 sarà denominato La ronda di notte. Scoperta la sua accusa gli assassini si vendicano riducendolo in rovina e cercando di accecarlo. Ma il film, nonostante l’intreccio avvincente (viene anche ricostruita in parte la vita di Rembrandt e delle sue tre mogli), e nonostante la sensazione di un tipo di cinema in cui Greenaway sembra rinnegare la sua battaglia contro la narratività, non è un film su Rembrandt, o perlomeno non sulla vita di Rembrandt, ma sulla pittura o meglio, sulla regia di Rembrand del film La ronda di notte. In effetti a Greenaway interessa il rapporto tra autore e opera d’arte, interessano i motivi per cui un quadro come questo, ripudiato e considerato dai contemporanei una aberrazione, sia invece un documento di grande qualità artistica. In ogni quadro c’è almeno un mistero e solo l’occhio allenato di un osservatore attento (Greenaway dice “di chi non è un analfabeta visivo”) può “possedere il codice” per decifrarlo. Un quadro non va visto come un’immagine tra le altre, ma come un evento dinamico che cela i suoi misteri e che obbliga a porsi delle domande. Nell’incipit del film è evidente l’analogia tra il pittore Rembrandt, che dispone i personaggi sulla scena prima di essere immortalati, e il regista moderno Rembrandt che indica le posizioni agli attori prima di iniziare le riprese. E siccome il cinema è l’arte di manipolare la luce, per Greenaway, essendo la Ronda di notte uno di primi quadri ad essere stato dipinto alla luce artificiale delle candele, la data di nascita del cinema non è tanto il 1895, quanto, probabilmente, il 1642. Il soggetto della Ronda di notte è insomma la luce e l’utilizzo che ne fece Rembrandt e come questa luce può essere manipolata allo scopo di rendere il dinamismo tipico delle rappresentazioni teatrali (per questo motivo Greenaway ha dato un taglio teatrale, ma non solo, al film). Nigthwatching inoltre fa parte di un altro progetto commissionatogli dal Rijksmuseum di Amsterdam per riqualificare il museo stesso rilanciando l’interesse per la cultura. Il film è solo un elemento tra tanti di un puzzle che Greenaway sta cercando di comporre . Il museo gli ha messo a disposizione la tela per tre mesi durante i quali, all’interno del Rijksmuseum, ha potuto effettuare diverse riprese cinematografiche (ad alta definizione) dopo di che sono state proiettate sulla tela stessa una serie di diapositive (Greeanway ha mostrato in un video il risultato) che hanno reso ancor più dinamico il dipinto (pioggia, fiamme, fonti di luce che provengono da varie direzioni mettendo in evidenza di volta in volta i vari personaggi, e molti altri effetti). Su queste diapositive è stato montato un “commento” sonoro (rumore della pioggia, crepitio dell’incendio, rullare di tamburi, ecc.). Insomma La ronda di notte è un film. Non come Nightwatching ma come il dipinto del 1642. Questo progetto proseguirà con una rappresentazione teatrale in una città olandese (non ne ricordo il nome) e con altri eventi. Questa “performance” eseguita sulla Ronda di notte ha interessato anche altri committenti e pertanto Greenaway eseguirà simili operazioni anche sulle Nozze di Cana del Veronese al Louvre, su Las Meninas di Velázquez al Prado e sull’Ultima cena di Leonardo nel refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie. Lo so, durante l’incontro tra Greenaway e il pubblico, che ha avuto luogo il 10 novembre a Poggibonsi, mi sono reso conto (opinione personale) di avere davanti un uomo pieno di sé: irritante, egocentrico, arrogante, presuntuoso. Ha infatti affermato che siamo tutti analfabeti visivi e che solo una élite è in grado di “vedere” oltre le apparenze, una preparata élite di persone che hanno studiato il disegno e hanno la capacità di “leggere” le immagini. Molto fastidioso, lo so, e anche opinabile, com’è opinabile la sua battaglia contro la narratività nel cinema. Comunque resta il fatto che l’arte di Greenaway (cinema, performance, pittura, elaborazioni varie, corti, riprese architettoniche, libri,ecc.) rimane un’eccezionale testimonianza di alta qualità artistica e una provocazione che è anche un tentativo di destare il cinema (ma anche l’arte nel suo complesso) da quel torpore che sembra in grado di bloccare ogni tentativo di riqualificare il gusto e la partecipazione attiva dei fruitori. Greenaway afferma che in fondo gli unici due temi “narrativi” del suo cinema (ma scavando a fondo un po’ di tutto il cinema) sono eros e thanatos e che il suo cinema non è per tutti.

7 novembre 2007

Le valigie di Tulse Luper parte 1: la storia di Moab (Peter Greenaway, 2003)

Sincronia. Reiterazione. Prospettiva. Flusso. Vedere “The Tulse Luper Suitcases part 1: the Moab story” non è come vedere un film qualsiasi, in quanto lo spettatore cessa di essere incarnazione di uno sguardo totalizzante. Anche nei film dov’è tramontata l’istanza narrante onnisciente, e dove la rappresentazione diventa possibilità visiva di altri sguardi differenti dal nostro o dove l’immagine cessa di essere legata al movimento per fondersi con il tempo, non si perde mai completamente la “centralità” dello sguardo. Qui lo spettatore perde totalmente il controllo del film. Sono talmente tante le informazioni (visive, sonore, di scrittura, matematiche, pittoriche, ecc.) accumulate contemporaneamente nell’immagine che risulta impossibile “assorbirle” tutte. Forse conviene non opporsi al flusso, senza cercare una chiave per “decifrare” i codici semantici, ma partecipare alla kermesse caleidoscopica di un cinema che potrebbe segnare davvero (ed io me lo auguro) il prossimo futuro della settima arte. Siamo di fronte a un nuovo modo di concepire la prospettiva. Quella classica, tridimensionale, preferibilmente con un unico punto di fuga (ma anche certe prospettive post-moderne alquanto baroccheggianti con la classica prospettiva d’angolo) sta per tramontare, come sta per tramontare un punto di vista centrale che coincide con il fuori-campo e osserva un cinema classicheggiante (campo-controcampo), ma anche moderno (sguardi che guardano verso un oltre mai inquadrato) o postmoderno (un’entrata nel film attraverso piani-sequenza veloci che s’avvicinano e roteano intorno agli oggetti). Siamo ad esempio di fronte a scene riprese in campo medio (interpretate magari da attori visti di profilo) che condividono sincronicamente il quadro con primi piani di oggetti e/o personaggi, mentre il quadro “viaggia” velocemente attraverso una carta topografica dello Utah. La prospettiva insomma viene messa in crisi attraverso la decomposizione delle location, la destrutturazione di oggetti e personaggi che sono visti contemporaneamente dentro e fuori il contesto (spesso incorniciati in un bianco e nero che scivola verso altri volti, lasciando che il colore riprenda via via possesso della scena), oppure attraverso una ricostruzione teatrale che isola l’ambiente dal mondo delegandolo in una posizione “aliena”(1) (es. la stazione dove hanno rinchiuso il sosia di Tulse Luper oppure i giardini delle casette operaie ricostruiti in teatro in uno stile che ricorda Dogville di Lar von Trier). La prospettiva viene attraversata simultaneamente da un montaggio “interno” all’immagine, una sutura che solo un sarto saprebbe fare sulla stoffa (su quella stoffa e non su quella che seguirà) o una correzione di colore che solo un pittore riuscirebbe ad eseguire sulla tela. Stupefacente ad esempio il montaggio simultaneo dell’incipit: l’immagine dei bambini che scavalcano di corsa i muretti dei giardini, simulando scene della prima guerra mondiale ascoltata nelle storie dei loro padri, viene mostrata (diciamo attraversata) da quelle che sembrano vere scene documentaristiche di guerra con vista di soldati che escono dalle trincee nel loro ultimo assalto all’arma bianca. Insomma messa in crisi della prospettiva non per negarla, ma per rifondarla, ripartendo appunto dal disegno frontale e obliquo (intendo le proiezioni parallele) proprio come è accaduto per secoli nella tradizione mediterranea e cinese (2). Quelle che erano voci e suoni acusmatici tanto cari a Fellini e Godard (ma non solo) qui si allineano contemporaneamente nel quadro. Praticamente sono “uditi” anche attraverso le immagini. Ottica e acustica si ripetono. Come l’immagine viene reiterata attraverso visioni multiple e oblique, così accade al suono: personaggi inquadrati da diverse ottiche, reiterati più volte e in sincronia, parlano uno dopo l’altro nelle diverse prospettive creando come un’onda, un flusso sonoro simile ad una cadenza ritmica musicale, anzi matematica. Le voci dei narratori sono pronunciate da volti incorniciati, simili a piccoli avatar che scivolano lungo l’immagine, sovrapponendosi ai suoni reiterati dei dialoghi prima emersi nel primo piano acustico, poi rintuzzatisi sullo sfondo. Altro aspetto: gli oggetti. Sono preponderanti, abbondano nelle 21 valigie dei tre episodi (Newport, Moab, Anversa), entrano in rapporto con i numeri che a loro volta scandiscono la storia. Ogni cosa è simboleggiata dal n° 92 (simbolo dell’uranio e numero delle valigie che saranno aperte: nella prima valigia vi sono 92 pezzi di carbone). I numeri appaiono ogni volta che Tulse viene pestato. Ma scandiscono anche le immagini nella loro stessa reiterazione continua, quasi ossessiva. Luper sfoglia un libro di anatomia: molteplicità di nasi, occhi, mani, peni, parti del corpo umano, come in un catalogo di un rappresentante. Anche in questo caso, allo stesso modo della prospettiva e del suono, il corpo umano, ridotto nelle sue parti e mostrato in una serie infinita di reiterazioni, diventa uno fra tanti. Le foto dei volti sui documenti chiesti (e mostrati in una lunga serie da Greenaway) durante una perquisizione ai passanti di Anversa evidenziano la serialità degli esseri umani: illusione di unicità affondata nella melma del “reale” e della sua massificazione: siamo numeri, simboli, ebrei deportati nei lager, rinchiusi di prigione in prigione (come Luper), denudati per farci sentire deboli. Anche la scrittura partecipa al gioco della serialità e della reiterazione. La scrittura è ovunque, la scrittura è il nome che Tulse scrive sul muretto del deposito di carbone dove sarà rinchiuso per punizione dal padre, sono gli articoli che scrive sul Times e sul Manchester Guardian e sono le sceneggiature, i diari, i progetti che Luper scrive nella prigione di Anversa (il bagno della stazione ferroviaria), città in cui troviamo anche Floris Creps, sosia di Luper, anch’egli imprigionato (nel deposito bagagli della stazione) n. di cartellino 92. La scrittura inonda il film, come rappresentazione del tentativo di “controllare” catalogando e descrivendo il mondo. Ma essa stessa diventa icona del reale, rappresentazione della sua stessa bellezza. Il film fa parte di un progetto più ampio, è il primo di quattro episodi che non si completano solo attraverso il cinema, perché Greenaway prosegue la storia di Tulse anche con le sue performance, con il sito del film e un libro “Tulse Luper a Torino”. L’arte di Greenaway passa attraverso ogni disciplina (soprattutto scrittura e pittura) collegando il cinema all’evento in sé, inteso come incontro e rapporto con il suo pubblico e come fruizione consapevole e coinvolgimento totale nel suo fantastico mondo. Il progetto Tulse Luper mi ricorda in particolare l’esperienza di Fluxus, progetto che mirava a fondere tutte le arti pur rispettando la specificità di ogni forma d’arte, movimento artistico espressivo, fondato da Maciunas nel 1961, che fu considerato anche un tentativo di superare il confine tra esistenza e creazione artistica.

(1) Con “aliena” intendo dire “esclusiva”, ossia non omogenea alle immagini più “naturalistiche” del film.

(2) Scolari Massimo (Il disegno obliquo. Una storia dell'antiprospettiva)

4 novembre 2007

eXistenZ (David Cronenberg, 1999)

eXistenZ è un saggio sull’uscita dallo sguardo, un racconto che porta l’osservazione ad interrompere il flusso delle informazioni ottenute attraverso i media. L’informazione utilizzata per costruire il proprio mondo, adattata o riciclata, deformata o metamorfizzata, e poi decostruita per essere ancora assemblata, non arriva più da un dio tecnologico, un client collegato a chissà quale server remoto. Il gioco adesso assorbe la linfa dal nostro corpo perché è immagazzinato in una consolle organica che viene innestata, attraverso una sorta di cordone ombelicale, ad una bioporta ricavata direttamente sulla schiena del giocatore. Quindi il giocatore diventa l’interfaccia globale, ossia input e output contemporaneamente. La consolle è solo il cd col programma che interagisce e “gira” utilizzando direttamente il corpo umano. La tecnologia che conoscevamo (computer, hardware, lcd, plasma, laser, ecc.) non esiste in eXistenZ perché ormai il corpo umano si è trasfigurato direttamente nel virtuale e il virtuale s’è incarnato nell’essere. Pertanto lo sguardo perde la sua capacità visionaria, nel senso che cessa di collocarsi come (sur)entità trascendente al di fuori del visibile, per lasciare il posto al sistema sensoriale nel suo insieme (tatto, olfatto, gusto, vista, ecc.) divenuto un qualsiasi referente dell’evento (film o storia o brusio), un “normale” viaggiatore tra tanti, testimone dello smarrimento e dell’inesplicabile marginalità della propria collocazione. Relegato nella “storia” in qualità di parvenza smarrita, che popola forse anche i sogni degli altri, lo sguardo non vaga più intorno all’immagine, ma s’incarna incuneandosi dentro l’icona del progetto eXistenZiale, saturandone gli interstizi, trasformandosi in dio immanente ed evanescente, soggetto/oggetto. Soggetto del proprio “sentire” ma anche oggetto come proprietà di altri sguardi. Insomma la disgregazione che provoca una diminuzione dell’informazione (impossibilità di decifrare la complessità) può essere affrontata attraverso l’abbassamento del livello matematico-decifratorio dello sguardo a tutto vantaggio delle sensazioni corporee (appunto tattili, olfattive, sensitive) innalzandone l’azione dopante, ossia cercando l’informazione nelle pieghe di un'anti-entropia. Mi spiego meglio: l’innesto nella bioporta di eXistenZ immette direttamente l’emotività dentro l’oggetto, praticamente (utilizzo una frase molto ridotta e imprecisa) l’opera d’arte è fatta anche per essere annusata, oltre che fruibile può essere, ad esempio, anche edibile. Lo sguardo non ha più bisogno di un medium, perché è diventato un corpo che viaggia dentro un gioco. Così però c’è il rischio di una (con)fusione tra reale e virtuale. I personaggi di eXistenZ si preoccupano, durante il gioco, dei loro corpi “reali”(avranno fame o sete?). Ma dove sono i loro corpi? Sono mai esistiti? O sono parvenze proiettate nei sogni di un altro giocatore? Allegra (ideatrice di eXistenZ) fugge con Ted dagli antieXistenZialisti, ma poi si scopre che anche loro sono terroristi pronti a colpire l’inventore del gioco ulteriore (un altro livello superiore?) forse comprendente persino lo stesso eXistenZ: transCendenZ. L’esistenza dunque non è più immanente ma trascendente? C’è uno sguardo ulteriore che osserva tutti noi? Osserva noi che osserviamo lo schermo. È come vedere l’immagine di un paesaggio; poi si allarga il campo che ingloba l’osservatore del paesaggio, poi un altro allargarsi di campo che ingloba qualcos’altro, all’infinito come nelle scatole cinesi. Non si esce più insomma dal gioco, non è più possibile uscire dall’Hotel di Kubrick, proprio perché non c’è più un labirinto, ma una inarrestabile deriva dell’esistenza. Qui i fantasmi siamo noi. Siamo gli ectoplasmi di Edgar Morin(1), seduti comodamente sulle poltrone di una sala a vedere eXistenZ, sicuri (o insicuri) della nostra eXistenZa sospesa durante l’ora e mezza della proiezione. Siamo insomma “esterni” al film. Ma, attenzione, c’è transCendeZ che ingloba tutto: gli inventori che fuggono aggrediti in un livello del gioco, in un altro diventano gli aggressori. Alla fine lo sguardo resiste, perché i corpi di Cronenberg sono pronti a colpire con i loro proiettili-dente, sparati da pistole di ossa e carne capaci di superare i metal-detector e i rilevatori di plastica, chiunque cerchi di togliere il velo che cela la quarta parete (la parete del pubblico). Allora la bellezza del film è tutta nella frase che Allegra pronuncia al titubante Ted, che non vuole farsi innestare una bioporta: “E’ questa la gabbia che ti sei costruito, che ti tiene intrappolato e ti obbliga a muoverti per sempre nel più piccolo spazio concepibile. Rompi la tua gabbia, Pikul”. Rompiamo questa gabbia, proviamo a “vedere” conoscendo, usando pertanto tutti i sensi. Come direbbero i francesi il sapere (SAVOIR), ossia la conoscenza, comprende e ingloba il vedere (VOIR). Un film che mi ha profondamente segnato e influenzato.

(1) “Siamo noi che nella sala buia siamo i loro fantasmi, i loro ectoplasmi spettatori.[loro è riferito a ‘personaggi’]” (E. Morin, “Il cinema o l’uomo immaginario”).

1 novembre 2007

Barbarella (Roger Vadim, 1968)

È un film fantascientifico-erotico che ebbe un buon successo di pubblico ma dall’intreccio insulso e da un continuo susseguirsi di sequenze feticistiche (mi pare di ricordare che la stessa Fonda abbia in seguito ripudiato il film). A bordo della sua astronave Barbarella viene inviata dal presidente della Terra sul pianeta Sogo per rintracciare un noto scienziato, un certo Durand Durand, scomparso portando con sé il segreto di una potentissima arma di distruzione. Per Barbarella cominciano le disavventure su un pianeta inospitale dove i “cattivi” spadroneggiano e i “buoni” sono stati rinchiusi in un labirinto (qui troverà l'Angelo Pygar che l’aiuterà nella sua missione). Ad ogni modo Barbarella riuscirà a sconfiggere le forze ostili alla pace, salvando la Terra dal pericolo incombente. Il film è la trasposizione di un fumetto di Jean-Claude Forest che ne ha curato la sceneggiatura e la scenografia. La parte più interessante è da cercare nella spregiudicatezza con la quale Barbarella “usa” il suo corpo, indossando innanzitutto vestiti succinti e distribuendo amore con la massima disinibizione. Anzi saranno proprio il suo amore totale (spirituale ma soprattutto carnale) e la sua prorompente bellezza a trascinarla verso il successo. In particolare degne di attenzione due sequenze, per me sufficienti a sostenere l’intero film e a giustificare le capacità visionarie di Vadim e Forest: 1) l’incipit con lo strip-tease in assenza di gravità di una Barbarella colta nell’atto di togliersi la tuta spaziale. La macchina da presa segue la bellissima Jane Fonda che si toglie scarponi, guanti e le altre parti dello scafandro fino a mostrarci la sua completa nudità. Naturalmente all’epoca le parti più intime di una donna non potevano essere mostrate, pertanto i titoli di testa che scorrono sulle immagini sono stati sapientemente posizionati sulle parti del corpo della Fonda proprio nei punti che non era possibile far vedere. Lo spogliarello è una originale danza giustificata dall’assenza di gravità, un incipit che mostra la forza prorompente della ri-costruzione mentale messa alla prova da una sola immagine attraversata da più significazioni (nudo, danza, science fiction come segni), trasformando un banale gesto di una tuta tolta (quante tute spaziali abbiamo visto buttare da astronauti intenti a uscire dal pesante ingombro?) in una danza erotica d’impagabile leggerezza. In questo caso il segno prorompe riversandosi oltre lo schermo fino a colpire l’immaginario erotico di ognuno di noi: immaginario erotico nel senso di immagine che suscita una libido freudiana indirizzata (grazie ad un processo di sublimazione) verso il procedimento artistico, ossia verso una irreversibile passione per l’arte in fieri (e la danza è arte che si crea davanti ai nostri occhi). 2) L’altra scena è la lotta tra Barbarella e l’Excessive Machine, una macchina infernale che somiglia a un enorme pianoforte contro la quale Barbarella dovrebbe soccombere a causa delle micidiali capacità erogene sprigionate dal "pianoforte" suonato da Durand Durand. Ma Barbarella, pur imprigionata sotto la “coperta-coperchio” del piano e sottoposta a un rapporto sessuale, riuscirà, anche se faticosamente, a resistere agli eccessi dell’orgasmo, distruggendo l’Excessive Machine. Questa è un’altra splendida sequenza per il cinefilo-voyeur, guardone impertinente affascinato dall’immagine dell’amore (eros e non solo sesso) che distrugge una macchina del sesso. L’eros (amore e sesso) contro la pura fredda libidine? La scena dello scontro è stupenda. La macchina fumante e ardente (nel senso che prende fuoco) nulla può contro la carne fumante e ardente (nel senso che prova un orgasmo). Excessive diventa eccessiva per se stessa, non per gli imperscrutabili sogni di una donna tanto bella.