29 ottobre 2007

Giorni e nuvole (Silvio Soldini, 2007)

Il film è la storia di una coppia in crisi a causa della perdita del lavoro di Michele, agiato impresario genovese, e delle conseguenti ristrettezze economiche alle quali i due non sono abituati. Ma a parte la storia, ciò che mi ha gradevolmente sorpreso del film è un’analisi (efficace e depurata da ogni preziosismo formale) dell’aumento costante ed irreversibile dell’entropia. L’approdo ad un mondo ordinato, che offriva certezze, mostrava i confini, accarezzava i sogni di chi ambiva a programmarsi un’immagine classica e sicura dell’universo, adesso non è più possibile. L’incipit in medias res può essere interessato da una dinamica in atto (sociale, psicologica) con rottura di un equilibrio costituito (come ad esempio un matrimonio e conseguente separazione) per arrivare al raggiungimento di un altro equilibrio (ad esempio la ricomposizione del matrimonio o la formazione di un'altra coppia); ma ciò non accade in Giorni e nuvole, perché l’entropia è irreversibile: troppa energia esterna per formare un nuovo equilibrio. La tendenza della materia al disordine segue il suo corso, lentamente, placidamente, senza finti patetismi, senza cliché irreversibili di situazioni usurate. Le immagini scorrono lentamente addosso agli interpreti, la macchina-a-mano si avvicina ai volti, scansando campi medi e lunghi, campi e controcampi, allo scopo di sottolineare l’avvento terrorizzante e spaventoso dell’entropia. La consapevolezza della perdita dell’indivisibilità del nostro mondo, la perdita delle certezze e dell’ordine mentale che ognuno tende a costruirsi inconsciamente, viene addirittura sottolineata da Elsa (una Margherita Buy in forma) nell’epilogo del film (“Credevo che noi due fossimo indivisibili. Ma non è così”). La capacità del film di portare questo tema dentro lo sguardo è tutta compresa nella capacità di stare vicino ai personaggi, restandosene adeguatamente lontani. Quando scrivo “vicino” intendo nel senso di sguardo “attaccato” soprattutto a Michele e alla sua perdita di ogni certezza, fino alla lenta e irreversibile disgregazione. Infatti il mondo si sfalda lentamente intorno a lui riducendosi in pezzi non più rimontabili. Come un profumo, prima al sicuro nella sua boccetta, poi, una volta aperto il tappo, evaporato nell’aria per perdersi nel caos. Il film è la storia di questo profumo, che una volta uscito s’impregna della puzza densa e impavida di ciò che sta fuori. La distanza dai personaggi si delinea nel momento in cui lo sguardo si posa sulla vista di una Genova quasi metafisica: un guardare lontano; un campo che abbraccia quasi l’intera città e il suo traffico e il suo porto. La città distante, prima emblema del mondo da prendere con una sola mano, adesso è un oggetto, bellissimo e depurato, che mostra la sua estraneità classica. La città vera è quella che scorre ai lati del motorino guidato da Michele, del manager trasformatosi in fattorino, una città irrazionale e antinaturalistica, colta attraverso lo stato d’animo del protagonista. Lo sguardo ravvicinato (che rende bene un’estetica dell’angoscia e della sofferenza) si contrappone allo sguardo distante (come una pausa che mostra una città lontana e allo tesso tempo “irreale”) fino all’epilogo, quando l’immagine rimane sospesa nel mostrarci Michele ed Elsa inquadrati dall’alto, sdraiati e quasi confusi sul pavimento, colti nell’atto di contemplare l’affresco ritrovato del Boniforti. L’universo si sta disgregando (almeno così dicono la maggioranza dei fisici) e non era certo lo sguardo di Soldini a poterlo ricomporre solo per ammiccare al pubblico. La tragedia incompiuta è tutta nell’immagine sospesa, fuori dal tempo, di una coppia divisa e non più ricomposta, una coppia che non è più una coppia, ma due distinte molecole. Il caos è il loro futuro.

30 ottobre - 9 novembre L'ARTE DI PETER GREENAWAY

Nell'ambito della rassegna Fenice International Art Festival dal 30 ottobre al 9 novembre si terrà al Teatro Politeama e al Cinema Garibaldi di Poggibonsi (Siena) un ciclo di riunioni e proiezioni sul cinema di Greenaway. In particolare verrà proiettato il ciclo completo (4 film) di The Tulse Luper Suitcasese, nonché Nightwatching, ultimo lavoro del regista. Inoltre, giovedì 8 novembre alle ore 16, vi sarà un seminario-incontro con Peter Greenaway, e venerdì 9 novembre, dopo la proiezione di Nightwatching, il regista gallese incontrerà il pubblico. Occasione ghiotta per i cinefili. Il sottoscritto conta di partecipare (purtroppo salterò il seminario perché alle ore 16 mi troverò per motivi di lavoro a una distanza abissale da Poggibonsi, ahimé). Comunque troverete qui maggiori particolari.

26 ottobre 2007

Vasarely e il movimento immobile.



Quando guardo un film guardo un’immagine. Intendo dire che guardo l’immagine nella sua durata, la singola immagine decontestualizzata, finché non si collega ad un’altra immagine che segue, formando il sintagma. Guardo l’immagine prima del montaggio, per questo preferisco la durata, soprattutto quando la scena è ripresa dalla macchina da presa immobile o al limite da movimenti di macchina lievi e morbidi nel loro scorrere: insomma il piano-sequenza. Naturalmente ritengo che il montaggio rappresenti lo scheletro del film e quindi senza di esso nessun film potrebbe “stare in piedi”; non a caso uno dei miei film preferiti è La corazzata Potëmkin di Ejzenstein, ove regna “il montaggio delle attrazioni” (immagini extradiegetiche estranee al testo filmico rappresentato). Ma per il momento mi interessa solo affermare che l’immagine statica non è statica, che la velocità del film (di solito si dice: "questo film è lento") è solo un inganno visivo, dovuto al montaggio dosato e sapiente di immagini e piani. Ma l’immagine statica, oltre a mostrare un mondo, a contenere innumerevoli informazioni, a mostrarsi come trama di colore e forma (a me piace ad esempio il colore che cola lungo l’immagine) possiede i suoi movimenti interni, offre una sua velocità. Naturalmente l’occhio si adegua e la mente vuol procedere oltre, perché vogliamo una storia. Ma rimaniamo per un attimo dentro l’immagine. La sua dinamicità, l’illusione del movimento, si afferma in pittura soprattutto con l’Op Art (Optical Art), tanto simile nel nome alla Pop Art, ma tanto distante nell’estetica. Uno dei suoi maggiori esponenti è Victor Vasarely. Al contrario della Pop Art, la Op Art è una concezione figurativa che possiede una tradizione, come derivazione e sviluppo dell’opera di artisti quali Seurat (puntinismo) e Delaunay (orfismo). Comunque, a parte la storia dell’arte, a me interessa porre in evidenza l’opera più matura di Vasarely, quella degli anni sessanta, quando, nel portare avanti le sue ricerche plastiche, recuperò da suoi precedenti lavori il tema delle spazialità instabili create attraverso paradossi ottici. In particolare le forme figurate di griglie a scacchiera deformate nella prospettiva portarono Vasarely a creare un disegno che il pittore chiamò Vega (una delle stelle più luminose). Dall’ingrandimento e dal rimpicciolimento del quadrato di sfondo Vasarely ricavò forme a curvatura concava o convessa. Nacque negli anni sessanta la serie dei Vega. Vasarely ci dice che queste forme “[…] hanno un che di mostruoso, inquietante. Si distinguono nettamente da altre [...] opere e posseggono, perlomeno esteriormente, una dimensione barocca che li avvicina alla Pop Art”. Osservando un Vega si nota la bolla centrale che è come sbocciata dal piano di base delle forme geometriche, come una ciste che sta per scoppiare o un’ondulazione sferica che passerà oltre. L’immagine presenta un dinamismo notevole; fissandola a lungo l’occhio tende a catturare il mondo delle assonometrie, lasciandosi trasportare all’interno. La dinamicità è tutta nell’inganno ottico delle forme geometriche che danno l’illusione della terza dimensione. Quel “pizzico di mostruoso” di queste forme mi porta a riflettere. L’immagine mostruosa è quella che ti cattura l’occhio, ti attrae a sé come il canto di una sirena o lo sguardo magnetico di un vampiro pronto a succhiarti il sangue. Queste immagini “succhia-sangue” fermano per un attimo il tuo sguardo, immobilizzano la mente, affermando la loro mostruosa bellezza: il Sublime. Per Schopenhauer il Bello scaturisce dalla semplice osservazione di un oggetto piacevole, ma il Sublime è il piacere che si prova osservando la potenza o l’immensità di un oggetto che potrebbe anche annientare l’osservatore (1). Com’è sublime l’eruzione del vulcano di Stromboli davanti agli occhi della Bergman, così è sublime il cielo sopra la discarica dove Totò e Davoli sono stati gettati a terminare la loro esistenza, ed è sublime l’orrore che scaturisce dal movimento interno dell’immagine, perché qui il tempo ha preso il sopravvento. E’ un sentimento del tempo e non dell’azione, che invade l’animo, infonde la sensazione della precarietà, del flusso continuo che ci trascina via dalla vita come dalla bobina che scorre implacabile. Così mi trovo a vagare per film, cercando movimenti di colori, occhi che ti fissano per scavarti dentro, flussi di punti di vista che si affacciano al nulla, percezioni di forme e profilmici sconfinati, o pezzi decontestualizzati di realtà “altre” (mobili, oggetti, stoffe, armi, e altro ciarpame) arrivati da botteghe di antiquari per “riempire” le scene dei film in costume. La dinamicità dell’immagine statica è tutta nell’immagine. Nel cinema è il movimento interno o sono certi equilibri di colori e/o forme. Nella Op Art, movimento artistico ai confini tra l’arte e la matematica, è il dinamismo delle figure geometriche. Oppure sono le false percezioni di un Akiyoshi Kitaoka, epigono della Op Art, immagini statiche (non sono animazioni) che mostrano, ingannando l’occhio di chi guarda, i propri stupendi falsi movimenti.

(1) Il Mondo come Volontà e Rappresentazione.


Foto sotto: "Serpenti rotanti" di Kitaoka.

24 ottobre 2007

Angel (François Ozon, 2007)

L’amore impossibile di Angel per Esmé, nonché la perdita dell’amato che si arruola per recarsi al fronte, ci portano dentro il cuore stesso del Melodramma. Ma a guardare bene Angel non ha mai posseduto l’amato, perché non ricambiata. Esmé l’ha sempre tradita: prima della guerra, ma anche dopo, nonostante la grave ferita subita al fronte che l’ha reso un invalido. Com’è possibile allora perdere una cosa che non si è mai posseduta? La storia sembra un “normale” racconto di tradimento, con una lei che soffre (ma poi mica tanto) e un lui che la tradisce (ma che invece al contrario sembra soffrire per la sua incapacità di amare e di essere pertanto non un marito ma un mantenuto). La perdita dell’oggetto (altra caratteristica del melodramma) non è inoltre molto evidente. Gli oggetti che riportano alla mente Esmé sono i suoi anacronistici quadri, oppure Esmé stesso o le sue lettere. Angel soffre per amore, desidera riavere comunque e sempre il marito, e dedicargli la sua anima anche dopo la morte. Racconta a un giornalista che Esmé non si è impiccato ma è morto per un infarto. Pur “sapendo” che il marito è un gigolò ogni volta lo accoglie nella sua casa. Un melodramma? Certamente sì, ma c’è qualcosa che non sono riuscito a percepire a fondo (dovrei rivedere (!) il film tra un po’ e almeno altre due o tre o quattro volte). La captatio benevolentiae di questo melodramma insomma con me ha funzionato diversamente, perché non ho trovato lo scarto tra soggetto desiderante e oggetto del desiderio. Dov’è la ricerca dell’amore perduto? Forse un tentativo c’è, tentativo che si riduce a una breve conversazione a tavola, quando Angel, colta da improvviso attacco di pacifismo, da una repulsione innata per la guerra (ma forse anche dal timore della perdita), cerca di trattenere il marito nello stesso momento in cui il mondo (che ha sempre respinto Esmé e la sua arte) riconosce il coraggio del pittore che lascia la comoda tenuta di Paradise per la dura vita di trincea. La perdita del marito inoltre non porta direttamente all’epilogo finale. Perché forse non è una mancanza? Cosa manca ad Angel? Dopo il suicidio l’oggetto dell’amore e del desiderio viene sostituito dalla “memoria” che deve essere esemplare. Angel si sente in obbligo di far conoscere al mondo i quadri di Esmé (che non ha mai apprezzato) per trasformarlo nell’artista famoso che non è mai stato. La vera perdita, la mancanza che Angel ha sempre cercato, metafora dell’oggetto impossibile da avere, è almeno un’apparenza di amore non ricambiato. Pertanto la scoperta dell’anti-oggetto (una lettera di una rivale per la quale Esmé si è ucciso?) distrugge quell’apparenza. Adesso il “melodramma” può sfogare il suo epilogo tragico. Secondo me il film è soprattutto la storia di un amore, di una passione per l’arte. L’oggetto del desiderio è la letteratura, scrivere storie d’amore tragiche, raccontare il melodramma; il melodramma sta tutto nell’amore per il melodramma stesso. La passione di Angel è tutta nella sua ascesa al successo, nella sua caparbietà e nei suoi coiti e orgasmi ottenuti nell’atto stesso di scrivere. Il melodramma è la scrittura stessa e l’oggetto di questo melodramma sono i fogli (luoghi dell’arte) dove scorre l’inchiostro. L’amore per la scrittura è simboleggiato dall’immagine di Angel nuda inquadrata dal dietro mentre, seduta a una scrivania, “butta giù” il nuovo romanzo allo scopo di pagare i debiti del marito: dopo una notte di sesso (forse unico caso di coiti andato a buon fine) “tradisce” l’amato con un orgasmo ancor più intenso: il suo vero amore è la scrittura. Esmé è piuttosto l’ostacolo che le impedirà di “sposarsi” definitivamente con la sua arte, sì da mantenerla viva nell’immaginario collettivo del suo pubblico. Il film è un melodramma di immagini e colori, è melodramma proprio nel momento in cui mostra i gesti esagerati, i movimenti da diva di Angel, le sue reazioni spinte fino al limite, e la sua eccitazione sessuale verso ogni cosa, la morbosità con cui interagisce con il mondo. Angel ama circondarsi di belle cose (mobili, tappeti, gioielli, vestiti, mariti, gatti stupendi e colorati che sottolineano le vari fasi della sua vita e il suo umore), ma non ama l’arte in sé, la profondità stessa della bellezza, che è tutta nel suo ritratto, dipinto da Esmé, ritenuto orribile dal pubblico coevo. Il film è anche una riflessione sull’arte, sul concetto di bello che cambia con i tempi e del rapporto tra l’arte e il suo pubblico, rapporto anch’esso che cambia con i tempi. Così la sua opera, tanto amata agli albori del XX secolo, non lo sarà più vent’anni dopo, mentre i quadri di Esmé, tanto vilipesi vent’anni prima, cominceranno ad essere apprezzati in seguito. Il film è forse una speranza, un augurio che nasca un nuovo tipo di melodramma, non più legato alla perdita di un amore contrastato e perduto, ma alla perdita di un mondo che sembrava catalogabile e concreto, e che sappiamo al contrario essere inconciliabile ed impalpabile; un mondo che sappiamo essere un melodramma di immagini e colori ormai perduto e impossibile da scorgere nella profondità dei fotogrammi; cecità visiva che ci porta direttamente al tragico epilogo: l’impalpabile leggerezza dell’essere(1).

(1). Quest’ultima frase ricorda casualmente il libro di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere

21 ottobre 2007

Stardust (Matthew Vaughn, 2007)

Attenzione in questa recensione svelo il finale del film.

Stardust rispetta tutte le “regole” classiche della fiaba così come enucleate da Propp nel suo lavoro Morfologia della fiaba. Per Propp: “Gli elementi costanti, stabili della fiaba sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente da chi essi siano e in che modo le assolvano […]. Le funzioni sono perciò le componenti fondamentali della fiaba, gli elementi con cui viene costruito lo svolgimento dell’azione […]”. Queste funzioni sono 31 e si verificano seguendo sempre lo steso ordine . Non è mia intenzione eseguire un’analisi di tipo strutturale del film col cercare le funzioni, ma solo sostenere che Stardust è un film “strutturalmente” classico, nel senso che si rifà alle fiabe di magia e alle loro origini storiche negli antichi riti di iniziazione. Le fiabe inoltre presentano tutte, al di là dell’area geografica di appartenenza, una stessa struttura, con elementi e azioni costanti. E questa non fa eccezione. Ad esempio se prendiamo l’ultima funzione la 31: “L’eroe si sposa e sale al trono”: non è proprio il finale di Stardust? La 30 ad esempio cita: “Punizione dell’antagonista” (Infatti la strega Lamia viene sconfitta). Ancora una funzione presa a caso, la n. 2 “Divieto. All'eroe è imposta una proibizione o riceve un ordine”. Infatti è fatto divieto a Tristran di oltrepassare il muro che collega l’Inghilterra al villaggio fantastico di Stormhold. Nonostante ciò Stardust non è un film preciso e interessante perché si “allinea” alle regole strutturali della fiaba magica, ma perché qui le funzioni, così rigidamente allineate alla storia del racconto, lasciano spazio a dei buchi, a dei vuoti densi di senso che non sembrano minimamente intaccare il plot e l’avventura magica, ma che contribuiscono a perfezionare questo meccanismo funzionale. Questi spazi opachi, ogni tanto, prima relegati nello spazio angusto, affiorano sulla pellicola del film mostrandosi in tutta la loro evidenza. Ma invece di affermarsi come nuclei densi di significato svolgono il compito di annullare o per lo meno di deviare l’ingannevole trasparenza delle cose. Alcuni più importanti sono: la soglia e il limes, qui rappresentati da un muro che divide l’Inghilterra (il mondo) da Stormhold (la fiction, la fiaba), limes tra l’altro invalicabile per chi viene dalla “realtà” (c’è un guardiano che svolge quasi bene il suo ruolo), ma non altrettanto per chi proviene dalla fantasia (e stranamente nessuno vuole entrare nel mondo reale). Il discorso sulla soglia come collegamento di due spazi, punto di passaggio, luogo ove non si sosta ma si passa, luogo che forma, induce l’inizio del cambiamento, soglia come dinamica del sogno che si realizza, apertura verso il Fuori e tutto ciò che comporta, ossia soglia come dinamica del mistero, sarebbe complesso e non sarei nemmeno indicato a svolgerlo. Tanti filosofi (da Leibniz a Deleuze da Aristotele a Cacciari) ne hanno approfondito il mistero. Anche la Metamorfosi è un altro”vuoto” rispetto alla favola, ma non perché la fiaba non preveda metamorfosi (si pensi al lupo di Cappuccetto Rosso che si spaccia per sua nonna) ma perché questi cambiamenti vengono utilizzati per produrre gag niente male (es. le tette di Lamia che s’afflosciano improvvisamente, Capitan Shakespeare che si traveste da ragazza per dare sfogo al suo animo gentile). Il “vuoto strutturale” che mi ha più colpito è la duplice essenza della fanciulla stella: ciò che di là (nell’altrove) è una splendida creatura che sa amare e brillare, di qua (nell’hic) diventerebbe materia inerte, un blocco di metallo spento. E questo è proprio il pericolo peggiore. Non la strega che vuole il cuore di Yvaine per tornare giovane, non il principe Tertius che vuole il gioiello per avere la corona, ma il passaggio mentale tra l’altrove e il qui, il passaggio repentino e insensato dal sogno dove è tutto possibile, fin verso l’ininterpretabile, ossia verso la scelta del dolore insanabile del “male di vivere”; la scelta del mondo dove l’amore è convenienza, la violenza è un modo di vivere, dove non vi sono né buoni o cattivi, ma solo entità evanescenti. Insomma un salto verso l’hic et nunc, fossa biologica del dolore inesplicabile. E incredibilmente sarà proprio il Male (la strega Lamia) ad impedire la definitiva metamorfosi della stella: da sogno a pietra. Tutto il male non viene per nuocere? La polvere di stelle in fondo è il risultato del passaggio di una soglia da parte di una ciocca di capelli. Una ciocca è un sogno, noi accontentiamoci di sognare con la polvere delle stelle, almeno per viaggiare come avessimo nella bugia una candela accesa di Babilonia (per Propp funzione n. 15).

18 ottobre 2007

In questo mondo libero... (Ken Loach, 2007)

Vedere un film di Ken Loach presuppone un adeguamento alla “sua” prospettiva, in pratica una forte volontà di non lasciarsi condizionare da sentimenti “politici”. Con questo non intendo dire che non si devono avere opinioni politiche su Loach o sui suoi film, oppure che i film di Loach non sono film politici. Tutt’altro. Loach è un autore, lo sappiamo, che non si preoccupa minimamente di raccontare una storia a “modo suo”, ma siccome i suoi film esprimono un naturalismo quasi documentaristico (almeno apparentemente) e vanno a toccare quello che oserei definire “ictus filmico” della storia (ossia pongono l’accento tonico principale sulla brutalità storica o sociale di un’epoca, di una nazione, di una casta, ecc.) è ovvio aspettarsi una reazione (per carità legittima) da coloro che non si riconoscono nelle sue “brutali” critiche al mondo attuale. De gustibus non disputandum est. Ma Loach esprime comunque la sua estetica, il suo modo di “vedere” la realtà, la sua interpretazione. In questo mondo libero non fa eccezione, anzi, mi sembra un’opera più matura di altre proprio perché Loach riesce a collegarsi meglio ad una delle anime di quella che negli anni ottanta venne definita British Renaissance, ossia l’anima erede del Free Cinema dei vari Lindsay Anderson, Karel Reisz, Tony Richardson, lo stesso cinema che si definiva kitchen sink film, un cinema del quotidiano, dei piccoli gesti e delle piccole azioni di un sottoproletariato impegnato a sbarcare il lunario. Questo in verità accadeva nei suoi film degli anni ottanta e novanta (Uno sguardo, un sorriso; Riff Raff; Ladybird Ladybird) ma accade anche In questo mondo libero. Sbarcare il lunario non significa solo amare i figli, lottare contro gli assistenti sociali e la polizia, cercare di difendersi dall’ufficio delle tasse, liberarsi anche in modo aggressivo da un capoufficio che ti mette la mano sul fondo schiena, significa anche lottare contro se stessi, per non fermarsi mai a soccorrere chi sta ancora più in basso. Il film ci mostra uno spazio angusto di una Londra irriconoscibile vista attraverso il suo traffico da periferia, i ghetti di baracche e roulotte abitate dagli immigrati, un clima che diventa esso stesso attante avverso degli infimi; ci mostra uno spazio in cui i bambini si muovono come oggetti persi in un mondo imperscrutabile, una violenza che sta sempre sotto le righe ("gli sguardi cattivi degli inglesi" come li definisce Karol) o che affiora appena alla superficie (un pugno, un rapimento soft, una donna legata e imbavagliata). Uno spazio soffocante, lo stesso in cui viviamo tutti giorni, spazio del quotidiano, ma angusto, anonimo, insomma un altro non-luogo. E in questo non-luogo si svolge il non-dramma di Angie, surrogato di donna in carriera, in realtà stilema estetico, simbolo della debolezza(1) del mondo. Questa “debolezza”, questa discesa negli inferi del referente (tuffo nelle tenebre dell’ambiente che ci circonda), questo armonizzarsi alla musica infernale del mondo non è altro che il tentativo di esorcizzare la morte, almeno per non aspettarla indifesi, di realizzare un sogno a costo di vendersi l’anima (o meglio una non-anima). Ma ciò che mi ha colpito di più nel film è che qui stiamo attraversando un non-luogo immerso in un tempo denso che non scorre e non si dipana in cerca di una soluzione, un tempo che afferra l’attimo per trasportarlo nei gesti e nelle urla di Angie come negli sguardi di Karol o di chi ha lavorato e non viene pagato. Insomma l’energia in questo film non si esaurisce perché Loach, Angry Young Men irriducibile, deve eseguire nel suo laboratorio esperimenti sociologici su cavie inermi e spaventate. Ma tutti questi contenuti che imperversano nel film, supportati dal naturalismo delle riprese, in realtà sono addomesticati da una retorica formale di alta qualità. Vedi ad esempio la sequenza di Angie imbavagliata e legata ad una sedia dagli immigrati. Angie ha paura, si lamenta, la macchina da presa la inquadra in campo medio, si vede il volto, ma la paura ci viene "mostrata" tramite il rumore acusmatico di un leggero scroscio di urina che cola sulla sedia o sul pavimento. Il rumore della paura. Potremmo definirlo una sinestesia visiva? Qui sta la grandezza di Loach.

(1) Gianni Vattimo, Il pensiero debole. Per Vattimo oggi non è più possibile che il pensiero abbia possibilità di affermare qualsiasi verità definitiva, pertanto l'unica verità possibile è che esiste una molteplicità di verità (non esiste una verità assoluta, ma solo una pluralità di verità relative). Il pensiero forte invece si fonda come forma di violenza sulle altre forme di pensiero.

15 ottobre 2007

Koyaanisqatsi (Godfrey Reggio, 1983)

Il film, uscito in Italia nel 1984 (il primo della trilogia Qatsi) a metà strada tra il documentario e la video arte, ma anche film “commerciale”, in quanto all’epoca uscì regolarmente nelle sale e fu visto da un numero considerevole di persone, è stato considerato, secondo me a ragione, un “poema per immagini”. Eppure il lungometraggio, pur non avendo dialoghi, essendo privo di una trama “diegetica”, essendo privo di attori e non essendo un film fiction, è stato catalogato come documentario. Ma Koyaanisqatsi non è un documentario. Cos’è allora Koyaanisqatsi? La parola nella lingua amerindiana hopi significa “vita in tumulto” o meglio ancora "vita senza equilibrio". E il film è proprio un tumulto incessante di immagini, una sinfonia effervescente di luci e colori, di movimento e forza, una forza della natura, uno sguardo sul mondo contemporaneo e sulla sua follia. Il film si suddivide in sei sezioni che scandagliano vari momenti della vita su questo pianeta. Le sezioni mostrano immagini di deserti, di fluidi e vapori, paesaggi verdeggianti; poi si passa all’ecumene (ormai allargata a quasi tutto il pianeta), con presenza di attività industriale, quindi immagini urbane con traffico di automobili, carri armati, industria bellica, facciate di grattacieli, degrado urbano, una lunga sequenza di nuvole riprese a velocità accelerata, quindi lunghe file di persone, soli che tramontano e sorgono e il piano della luna che tramonta dietro la facciata di un palazzo (questa è la scena più famosa del film)… Ma è un film che va visto. Ci sarebbero da scrivere centinaia di pagine, il film potrebbe essere analizzato in mille modi e forse prima o poi cercherò di fare una recensione più impegnativa. Ma chi volesse saperne di più legga qui. Questo film secondo me, proprio a causa delle immagini "ossessive" delle attività umane, è un inno alla natura, al mondo che stiamo perdendo e alla follia della vita quotidiana. Lasciatevi trasportare dalla poesia, guardate le immagini e ascoltate la musica di Philip Glass. Mentre guardate Koyaanisqatsi, immaginatevi magari di essere sospesi nel cosmo, di vagare con la mente all’interno del proprio inconscio o di incontrare altri sogni di altri esseri, solo per amare, anche per un attimo, ciò che stiamo perdendo.



13 ottobre 2007

Che cosa sono le nuvole? (Pier Paolo Pasolini, 1967)

Nell’incipit del cortometraggio il manifesto dell’opera che viene rappresentata “oggi” è il famoso quadro di Velázquez, Las Meninas. Evidentemente Pasolini intende anticipare quale sarà la rappresentazione. Va in scena l’Otello, ma vanno in scena anche le marionette con il loro incredibile pathos che si sprigiona, nonostante l’archetipo della caratterizzazione, dagli espressivi volti deformati dal ghigno indelebile del legno controllato dai fili del burattinaio. La rappresentazione della tragedia, sintetizzata in modo da rientrare nei venti minuti del film, si svolge in un teatrino cubico, molto rozzo e scarno; infatti la platea è una scatola dalle pareti grigie e grezze prive di finestre e senza nessun arredo. Nonostante la sintesi gli attori-marionette recitano la loro parte seguendo un copione che viene rispettato fino a quando un pubblico incolto, indispettito dalla perfidia di Jago e dalla dabbenaggine di Otello, irrompe sul palco, impedendo al Moro di uccidere Desdemona. Il pubblico determina il successo di uno o dell’altro personaggio, portando in trionfo Desdemona e danneggiando le due marionette dai caratteri opposti: Jago e Otello. Scegliendo Las Meninas come locandina della rappresentazione, Pasolini ci invita ad entrare dentro il quadro, mostrandoci il doppio livello della messa in scena: da una parte la tragedia rappresentata dai pupi/personaggi, dall’altra la prospettiva ingannevole di un pubblico collocato all’interno del cubo, con la visione frontale, quella canonica della prospettiva con un unico punto di fuga: è la visione classica secondo la quale lo "spettatore" sarebbe solo osservatore falsamente privilegiato, la visione che simula l'errata convinzione di poter controllare gli oggetti e i significati. Ma in realtà il pubblico non può vedere, né percepire i dialoghi e i caratteri dei pupi/attori, non può entrare nelle pieghe recondite, in quelle sfumature segrete e "irrazionali" del senso, non può calarsi nell'abisso della rappresentazione che si svolge comunque e sempre anche oltre l'immaginario e rassicurante punto di fuga. Ma non c'è sicurezza. La visione dalla scatola chiusa della platea, grezza e univoca non è sufficiente per scrostare i colori appariscenti e deformanti dell’ovvio (il verde elettrico del volto di Jago e il nero di Otello). Da questo punto di vista non si "vede" l'origine dell'immagine poiché il pubblico “interno”, metafora del nostro ingresso di spettatori distratti e immedesimati per quasi tutto il film con il punto di vista "frontale", vede il quadro dal dietro. È come se Pasolini ci invitasse a guardare il film come si guarda Las Meninas. Trovare la “verità” dell’inganno. Infatti sulla "parte frontale del quadro", nella visione aperta da un "controcampo" che annulla l'ovvia visione centrale, scopriamo Otello che non si rende conto del motivo per cui Jago, tanto gentile fuori scena, diventa tanto perfido in scena: Otello si chiede perché anche lui si faccia “così schifo” e “perché dobbiamo essere così diversi da come ci crediamo?”. Gli risponderà Totò (non Jago): “Eh…figlio mio. Noi siamo in un sogno dentro un sogno”. Pasolini ci ha indicato l’ingresso in Las Meninas. Il lato nascosto dal quadro, ciò che nessuno “vedeva” o voleva vedere, è il mondo, qui rappresentato da una discarica abusiva dove vengono portate le due marionette danneggiate. Scivolando lungo la cascata dei rifiuti, osservano un cielo con le nuvole di una bella giornata. Fuori dal “cubo”, non più marionette, ma essenze del mondo. A questo punto le pieghe del senso, che nascondevano la verità con i significati inessenziali (privi di essenza) adesso si sono dispiegate aprendosi ai segni sprigionati dalla natura. “Iiih! E che so' quelle? “ dice Otello. E Jago: Quelle sono... sono le nuvole... “ E che so' ste nuvole? “ risponde Otello. “Mah!” fa Jago mostrando anche lui di non conoscere altri che il suo teatrino. “Quanto so' belle, quanto so' belle... quanto so' belle... “ afferma Otello. E Jago: “ Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato!”. Poesia.

10 ottobre 2007

Il cinema della mente. Alcune osservazioni su Las Meninas di Velázquez (1656)

Sull’opera di Velázquez vi sono molte interpretazioni di storici dell’arte ma anche di filosofi e di esperti della fotografia. Le più interessanti sono state raccolte in un volume a cura di Alessandro Nova “Las Meninas. Velázquez, Foucault e l’enigma della rappresentazione”. Non starò adesso a riassumere tutte le interpretazioni e le speculazioni e analisi dei vari esperti d’arte. Piuttosto mi interessa sottolineare che questo dipinto rappresenta la volontà dell’autore di mostrare il momento artistico come momento ontologico che va oltre l’apparenza della rappresentazione di una qualsiasi giornata della vita di corte. Sulla tela vediamo Velázquez intento a guardare l’oggetto del suo quadro (di cui vediamo da dietro la parte grezza) mentre il centro del dipinto è occupato dall’Infanta Margarita. Alla sua destra è inginocchiata doña Marìa Augustina immortalata nel gesto di offrirle un bucchero rosso su un vassoio d’argento. Alla sua sinistra vediamo un’altra damigella: doña Isabella de Velasco. Ancora più a sinistra troviamo la nana di corte Mari-Bárbola, vicino a lei un altro nano, Nicolasito Pertusato, che tiene un piede sul dorso del cane. Dietro doña Isabel si trova una donna vestita da monaca: si tratta di doña Marcella de Ulloa accompagnata da un guardadamas. In fondo alla stanza nel vano della porta vediamo José Nieto Velázquez, maresciallo di palazzo della regina. Alla sua destra, appeso alla parete opposta al punto di vista, uno specchio riflette l’immagine del Re Filippo IV e della sua seconda moglie, la regina Marianna d’Austria. Il quadro, tipicamente dipinto secondo la prospettiva centrale (un solo punto di fuga), è interessante per innumerevoli motivi, ma quello che mi interessa (e ha interessato innanzitutto lo storico e filosofo Michel Foucault, ma anche molti critici ed esperti d’arte come Leo Steinberg e Svletana Alpers, filosofi come John R. Searle e Ted Cohen, nonché Joel Snyder, professore di storia e teoria della fotografia) è rispondere alla seguente domanda: chi o che cosa stanno guardando Velázquez e gli altri personaggi? Unanime la risposta: i reali di Spagna, perché si vede la loro immagine riflessa nello specchio e pertanto rappresentano il punto di vista che coincide con quello dell’osservatore, cioè con noi stessi. Noi siamo i reali e godiamo del privilegio di guardare la scena dall’esterno del quadro dominandola nell’insieme. Una visione tout court onnisciente, simile, molto simile a quella dello spettatore che al cinema se ne sta comodamente sprofondato nella sua poltrona. Foucault e Searle in effetti (con argomentazioni molto interessanti e complesse) confermano questa sensazione (lo specchio riflette il Re e la Regina). Ma non è così. Altri osservatori (fra cui Snyder e Cohen) hanno fatto notare, applicando le regole della prospettiva, che il punto di fuga non è situato nello specchio, ma appena sopra il gomito di José Nieto, pertanto, coincidendo il punto di vista con il centro della visione (quindi avendo assunto i Reali di Spagna, che noi non vediamo, la posizione di modelli della rappresentazione), non è possibile che Filippo IV e Marianna d’Austria vedano la loro immagine riflessa dallo specchio. Se ne deduce che l’immagine dello specchio è un’immagine di un’immagine, perché lo specchio riflette l’immagine del dipinto. Questa "rivelazione" (provata con disegni e ragionamenti secondo me ineccepibili) implica conseguenze impensabili per un osservatore distratto. Innanzi tutto i reali potrebbero essere giunti sul momento e quindi all’inizio di una “sessione” di lavoro, o durante una pausa (infatti Velázquez è distante dal quadro) oppure potrebbero essere in procinto di andarsene. Ma nessuno ci garantisce che il re e la regina assenti siano il soggetto della visione, poiché potrebbero essere altrove e la loro presenza potrebbe essere solo intuita attraverso un’immagine che non riflette la realtà e il mondo, ma che riflette molto di più. In fondo il tema più significativo del dipinto è l’atto stesso del guardare (il punto di vista) e dell’essere guardati (gli attanti del quadro compreso lo specchio), il dentro e il fuori, ma rappresenta anche un invito ad entrare nel quadro. Come affermano Joel Snyder e Ted Cohen, nel loro saggio raccolto nel volume da me prima citato, il dipinto “[…] è un’audace celebrazione della padronanza della propria arte da parte del pittore. Un pittore dotato rivaleggia con la natura; un grande pittore costringe la natura a rivaleggiare con l’arte”. Andando oltre la pittura, queste osservazioni potrebbero essere prese in considerazione anche discorrendo di cinema. Il cinema classico (soprattutto quello dei grandi autori) non sempre rivaleggia con la natura, nel senso che non solo riporta le storie e i fatti e la psicologia dei personaggi e le loro relazioni, ma costringe la natura a rivaleggiare con la sua stessa ontologia, obbliga il mondo a piegarsi al senso che si forma e deforma in ogni immagine, in ogni sequenza, filtra il profilmico nella sua stessa struttura restituendoci il mistero dell’arte e il suo fascino. Quando assistiamo ad un film apparentemente “decifrabile” bisogna sempre domandarsi perché rimaniamo affascinati dallo “sguardo” che ci restituisce. Forse perché noi non vediamo il riflesso del reale, ma vediamo molto, molto di più, vediamo il riflesso dell’arte, vediamo il segno che s’incarna nello stesso sguardo, ma è uno sguardo che ritorna a noi pregno di senso pronto ad esplodere sulla superficie dei nostri occhi, abbagliandoli. Penetrare la luce per afferrarne il senso è quindi uno dei presupposti per una “visione consapevole”. Non si tratta pertanto di rimanere sulla superficie dei significati, ma, come affermano sempre Snyder e Cohen, guardando Las Meninas bisogna sempre tener presente che Velázquez consiglia ai reali “[…]di non cercare la rivelazione della loro immagine nel riflesso naturale di uno specchio, ma piuttosto nella visione penetrante del loro grande pittore”.


8 ottobre 2007

Pierrot le fou (Jean-Luc Godard, 1965)

Accredito solo il titolo originale (Pierrot le fou) perché la traduzione italiana (Il bandito delle 11) è troppo orribile. Quando un professore mi consigliò di vederlo, e non sapevo che sarebbe diventato uno dei miei film più amati/odiati, pensai che era pazzo a consigliarmi un film dove uno rapina le banche alle undici. Pierrot le fou mi ha insegnato a guardare il cinema con occhi diversi, mi ha "indotto" a cercare nelle pieghe della struttura, come nell'opacità delle immagini, l'estetica stessa del cinema, la sua naturale capacità di dire tutto, di raccontare un mondo intero in una sola immagine. Nel film sono presenti i temi della passione, dell’amore, della morte. È la storia dell’ultima coppia romantica, come dice Godard. In questo film il discorso non si traveste da storia, ma esce allo scoperto, si mostra per quello che è, con tutti i problemi e tutte le domande e tutti i tentativi che comporta. Perché fare un’inquadratura invece di un’altra? Come si gira un film? Cosa pensa l’attore in quel momento? Bisogna porsi delle domande, affrontare i problemi. L’immagine non deve essere accostata ad altre immagini per dare l’illusione di un senso di unità. Un’immagine non è solo un’immagine. È qualcosa di più, perché deve comprendere il prima e il dopo. Bisogna sapere cos’erano i personaggi prima di essere messi nel quadro. In Pierrot le fou c’è un tentativo di scardinare il sintagma, di rimanere dentro l’immagine, di abbandonarsi alla materia. Ogni immagine non si somma alle altre per creare il senso, perché già ogni immagine contiene in sé il suo senso. Le prime battute di Ferdinand fuori campo introducono l’argomento: «Velázquez dopo i 50 anni non dipingeva mai una cosa definita. Girovagava intorno agli oggetti come l’aria e il crepuscolo». È questo il vero soggetto del film. Velázquez non dipingeva più le cose definite, ma quello che c’è tra le cose. Il film è un tentativo di penetrare negli interstizi che vi sono tra le immagini, di penetrare nei vuoti, di entrare nei circuiti dove scorre questa differenza di potenziale per prendere la scossa. Infilare le dita nei buchi della presa della corrente, come fanno i bambini. Domandarsi: cosa sono quei buchi nel muro? E rispondersi: sono fatti per infilarci le dita. Ma come si fa ad entrare in questo circuito per prendere la scossa? Ebbene Pierrot le fou in questo senso è solo un’ipotesi di lavoro (A differenza di "Deux ou trois choses que je sais d’elle" che è già l’interno del circuito). È un progetto per future operazioni . Bisogna partire dai dati che possediamo; non bisogna scegliere le cose, gli oggetti, i soggetti per metterli nel quadro; bisogna invece scartare tutto quello che può entrare nell’obiettivo e poi rimontare, ma non nei modi del cinema classico. Rimontare per far vedere la divisione, la separazione tra un’immagine e l’altra, tra un’immagine e un suono. Questo modo di montaggio o meglio di smontaggio che "parte dall’immagine audiovisiva classica, per farla a pezzi" (Bernardi "Introduzione alla retorica del cinema"), che parte dai personaggi per lasciarci solo rumori gesti e corpi, è un modo per sottolineare come la realtà sfugga sempre al linguaggio.

5 ottobre 2007

Vinyl (Andy Warhol, 1965)

Vinyl fu girato alla Factory da Andy Warhol (primo periodo sonoro 1964-1965) e forse si può considerare uno dei suoi film più “vedibili”, nel senso che ci troviamo davanti a una storia e ad una sorta di canovaccio con dialogo. Ad ogni modo non siamo in presenza di un montaggio che si possa definire tale, infatti Warhol lascia scorrere la pellicola nel caricatore fino al suo naturale “svolgimento”. Tutt’al più in alcuni film ci sono le giunte tra una bobina e l’altra. Tutto deve accadere sulla superficie del quadro: le azioni, i movimenti stanno all’interno (quasi sempre) di un’unica immagine. In Vinyl l’inquadratura è fissa. Si inizia con un primo piano dell’attore Gerard Malanga che muove la testa a destra e a sinistra per seguire il movimento di due pesi sollevati alternativamente. In seguito uno zoom all’indietro, allargando l’inquadratura, ci mostra tutti gli altri interpreti presenti contemporaneamente nell’immagine. Sul lato destro dello schermo appare Edie Sedgwich seduta su un baule, mentre sul lato sinistro c’è John Mcdermott seduto su una poltroncina da regista, dietro a John su una sedia c’è un uomo che fuma una sigaretta. Insomma i personaggi (non li ho citati tutti) sono più o meno già inseriti nell’immagine. L'azione del film si svolge prevalentemente all'interno dell’inquadratura, mentre i movimenti di macchina sono pochi e impercettibili. Sicuramente uno dei film meno “noiosi e osceni” di Warhol, pertanto non come Empire che mostra solo la punta dell’Empire State Building per ben otto ore di un'unica inquadratura, né come Blow Job dove si vede un ragazzo che gode per una fellatio fatta da un altro attore fuori campo. Vinyl (ma un po’ tutti i film di Warhol) ricorda un po’ il modo di girare odierno (macchina a mano e digitale), con la differenza che all’epoca non esisteva il digitale e Wharol usava una 16mm affidandosi per lo più ad illuminazione ambientale magari sfruttando la lampada artificiale della sua Bolex. Spesso il sonoro non era di ottima qualità, ma a Wahorl interessava l’evento in sé ove la necessità del fare cinema superava ampiamente lo sviluppo della narrazione. Era interessato soprattutto all’atto stesso dell’evento, quasi come una recitazione-verità molto simile agli odierni reality (anzi in un certo senso ne è stato l’anticipatore); cercava il momento cólto, con i probabili errori degli attori, senza preoccuparsi di guardare “oltre” l’immaginaria parete invisibile dove si trova comodamente seduto lo spettatore e dove sono collocati i “gobbi” con le battute. Warhol guardava al momento dello svolgersi ineluttabile del senso (come logos dell’azione ma anche come liberazione dei sensi), voleva immortalare l’azione in fieri colta nel suo divenire “quadro”, abbandonando gli effetti semantici delle riprese nello “scivolare” lento e inesorabile della pellicola fino alla sua ultima consunzione. Il fatto che in Vinyl vengano nominati gli interpreti del film oppure che sia chiaramente visibile lo sguardo fuori campo degli attori allo scopo di leggere i cartelli con le battute, testimonia l’attenzione focalizzata sul “cast” dei conviventi della Factory e in modo particolare sulla vitalità del loro Es. Un cinema “povero” finanziato spesso con la vendita dei suoi quadri, ma anche un cinema che testimonia la vita della Factory e, attraverso questa, la vanità del vivere moderno, il mondo pop, on the road. Nei suoi film vediamo Lou Reed (The Velvet Undergound and Nico – Symphony of Sound 1966) , Allen Ginsbourg (Screen Tests 1964-65), persino Bob Dylan (The Bob Dylan Story, 1966) il quale non autorizzò la pubblicazione del film. Osservare lo spazio teatrale di Vinyl, induce a ingrandire i movimenti, le relazioni psico-fisiche dei personaggi (che definirei a-personaggi nel senso di "attori-personaggi" oppure "non personaggi"), nonché il vivere tra recitazione e realtà (gli attori distribuiscono e ingurgitano anfetamine e LSD); obbliga lo sguardo a soffermarsi sull’evento in sé, sul mondo e sulla cultura di un’epoca che fu di continuo, imprescindibile cambiamento; obbliga a immaginare i rapporti tra Wharol e gli altri componenti della Factory, a ricostruire la vita e le sue angosce, i suoi dilemmi. Ma incuriosisce anche la sceneggiatura (più che altro un canovaccio) in quanto Vinyl è tratto dal romanzo di Anthony Burgess "Un’arancia a orologeria" da cui sei anni dopo Kubrick trarrà il suo capolavoro: Arancia meccanica.


2 ottobre 2007

Funeral Party (Frank Oz, 2007)

Funeral party è un film che procede seguendo le classiche regole della commedia umoristica così come sono state analizzate da Bergson (“Il riso. Saggio sul significato del comico”) secondo cui il riso presuppone la sospensione del legame di simpatia nei confronti di chi diventa oggetto del dileggio. Infatti, poiché il riso è un’esperienza corale, ridiamo meglio quando lo facciamo insieme ad altri. Per questo il riso possiede la capacità di unire, di creare un legame di complicità e intesa con altre persone intente a ridere. Il film è una commedia umoristica perché sottolinea comportamenti strani e reiterati (il concetto di diavolo a molla di Bergson) ed è nera perché si svolge in una situazione estrema (un funerale) andando a toccare la massima profondità dell’intimità umana: il raccoglimento interiore dinanzi alla salma di un caro defunto, la sofferenza, i ricordi di un tempo ormai irrecuperabile e l’immagine ancora “calda”, immagine di reale, immagine del trapassato che è un “fu” ma che ancora persiste incarnato nella salma. Il momento più alto (parlo per esperienza personale), più profondo, più intimo, che raccoglie tutto il senso della perdita, si prova all’atto della chiusura del cofano, quando le viti penetrano il feretro incollando una dissolvenza perenne: dopodiché il ricordo del defunto ci restituirà una vecchia foto incorniciata messa sopra un comò o una scrivania, curata e protetta con maniacale passione. L’humor nero tocca tutto questo, innestandosi nella parte più intima del nostro animo, risultando pertanto alquanto complesso da realizzare, da proporre, da accreditare. E siate pur certi che ci sarà sempre qualcuno pronto a scandalizzarsi. Per questo Funeral party è un film che funziona. Si ride e ci si diverte proprio perché riesce a portare il soffio della vita nel rito sacro e immutabile dell’ultimo saluto. Il cadavere che esce dalla bara è un fermo immagine, una fotografia che ci mostra tutti i suoi significati: significante immortale (almeno fino alla distruzione del supporto) fa leva sui nostri ricordi, ci riporta un mondo e la sua rappresentazione. Ma è anche il frame-stop incarnato nel movimento, nello scompiglio che provoca, è un portale da attraversare se si vuole godere in pieno il film. Ma dopo che abbiamo attraversato la soglia, oltrepassato l’immagine del cadavere, le apparenze mostreranno il loro lato opaco, la condizione essenziale per formare la consapevolezza: il padre di Daniel è stato un grande uomo, ma ha generato figli che non lo meritano e sposato una donna che recita la sua sofferenza (Togli le mani o lascerai le impronte); il padre di Daniel è stato un gay che ha amato un nano. Da qui nasce l’humor nero, nasce dal limen come frontiera annullata, de-codificata, infranta. E questa effrazione induce un senso di liberazione dai vincoli normativi dettati dai codici. Il film funziona perché la vita vi passa attraverso: gelosia, malattia, amore, tradimento. In un’ora e mezzo sono stati spiegati (dispiegati, aperti) tutti i temi del vivere moderno, della difficoltà e della complessità dei rapporti interpersonali. Fondamentale risulta la strutturazione dello spazio (una casa che ospita il feretro, l’attiguo giardino e il tetto della casa), degli oggetti che danno luogo al comico (la boccetta del Valium, la carrozzella dello zio Alfie, la bara, le foto scandalo), ma anche dei soggetti che costruiscono il plot. Lo spazio, sufficientemente affollato, è causa ed effetto degli eventi, costruisce nel sintagma luoghi impertinenti (nel senso che si trasformano sotto i nostri occhi sfuggendo al controllo): quello che sembra uno studio è anche un bagno, mentre il bagno del piano superiore diventa l’anticamera di una terrazza, palcoscenico di un teatro dove mostrare la propria nudità ad una folla accorsa in giardino, perché la vita deve soffiare più forte della morte. Gli oggetti sgusciano via, si muovono, vagano nello spazio come schegge impazzite pronte a farsi beffa degli uomini: così la boccetta del valium che passa di tasca in tasca, di mano in mano contaminando le persone (come un virus che tras-forma rendendo più deboli e quindi pronti per essere dileggiati); così il feretro che come una cassapanca da prestigiatore mostra prima un cadavere sbagliato, poi quello giusto, infine uno pseudo-cadavere che fuoriesce improvvisamente dalla bara come un diavolo a molla esce dalla sua scatolina (metafora questa del comico in sé); così le foto mostrate a Daniel e a Robert che fanno ancora più leva sull’immaginario, perché (mai mostrate) si vedono attraverso le smorfie e le reazioni degli attanti. Infine i soggetti con i loro problemi, la propria considerazione di sé che riescono a mutare continuamente il proprio punto di vista adattandosi alle esigenze della comicità. Questa trasformazione continua (l’avvocato diventa un angelo nudo, il nano un folletto, lo scrittore egoista un fratello, il paralitico un uomo abile e nudo sul tetto, l’ipocondriaco un coprofago involontario, ecc.) contribuisce a quel cambiamento della situazione iniziale indispensabile nelle commedie umoristiche, stemperando una materia difficile e pericolosa.