29 settembre 2007

Il Golem - Come venne al mondo (Paul Wegener, 1920)

La leggenda del Golem (il termine si trova per la prima volta nell’antico testamento) risale al XVI secolo, quando il rabbino Jehua Löw crea i Golem (uomini di terra) per usarli come servi finché uno di questi non fu più sotto il suo controllo e cominciò a creare disastri. Riuscito a distruggerlo, il rabbino decise di nascondere il demone nella Sinagoga del quartiere ebraico di Praga dove si trova tuttora. La leggenda del Golem venne recuperata dalla letteratura con il bellissimo romanzo di Gustav Meyrink (pubblicato nel 1915) Der Golem e infine dal cinema col primo film di Henrik Galeen e Paul Wagener “Der Golem, und wie er auf die Welt kam (1915)”. Il film, di cui sono rimasti solo alcuni spezzoni, è insieme a "Lo studente di Praga" di Stellan Rye (1913) il precursore del cinema espressionista, girato cinque anni prima del Gabinetto del dottor Caligari. Un secondo film fu girato nel 1917 (Der Golem und die Tänzerin di Rochus Gliese e Paul Wegener), andato perduto. Infine Wagener diresse un terzo film nel 1920 appunto Der Golem, wie er in die Welt kam, che è facilmente reperibile (esiste anche una bellissima versione colorata). La storia è ambientata nel XVI secolo ai tempi di Rodolfo d’Asburgo che per la leggenda aveva raccolto a corte il rabbino Löw, il quale gli aveva mostrato il Golem e le sue straordinarie capacità. Il film rappresenta l’orrore della materia inorganica che prende vita e questa esperienza di contaminazione tra il vivente e la fredda materia inerte risulta inquietante. Le scenografie del Golem possiedono qualcosa di mostruoso esperito attraverso la terra inanimata che assume la vita, attraverso quindi una metamorfosi (appunto non formale ma materica). Il film possiede molte delle caratteristiche del cinema espressionista soprattutto per la sua tipica stilizzazione del profilmico, nonché per la particolare attenzione ai vari elementi del quadro che sono più importanti dell’atto stesso di riprendere la scena. Domina anche qui una deformazione degli oggetti e dell’ombra, aspetti imponenti dell’arte espressionista, la cui caratteristica non è di “galleggiare” sulla superficie dell’immagine, ma di scavare in profondità, estraendo la struttura stessa della forma, l’anima mostruosa e in-guardabile (nel senso di guardabile dall’interno) che “regola” le forze in gioco (che plasma la terra). Anche se per alcuni critici le scenografie non sono del tutto espressioniste (in effetti l'apice si raggiunge col Gabinetto del dottor Caligari), ritengo che il film possieda immagini inequivocabilmente riconducibili al movimento tedesco. In fondo il Golem è metafora dell’atto della formazione del film, argilla come pezzi di profilmico che s'innestano nella materia per dare vita al clone, ma che senza un'anima, un biglietto con la parola ebraica "aemaet" (verità) inserito nel pentacolo innestato sul petto del Golem, non potrebbe prendere vita. Anche in questo film, come nel gabinetto del Dott. Caligari, domina la tensione tra heimlich e un-heimlich (familiare e non familiare) da cui nasce il perturbante, che è un aspetto sfruttato da sempre nel cinema horror. Ma la caratteristica peculiare del Golem è quella sua malinconia ottusa molto più terrificante dell’immagine di un mostro crudele e feroce. L’abito mentale dell’espressionismo è qui in contrasto col volto ebete e triste della creatura capace di fare il bene ma anche il male. Pertanto il mostro non è "racchiuso" dall’essere o esplicato dalle sue azioni più o meno nefande, ma si ritrova nel clima espressivo di un mondo costituito da ombre ed evanescenze che anticipano il tragico epilogo. La vita si toglie premendo un semplice interruttore (qui il pentagramma estratto dal petto) e il Golem (metafora dell’umanità stessa) ritorna come polvere alla polvere. Il Golem ha influenzato il film di James Whale, Frankenstein (1931), ma è stato anche uno dei primi automi del cinema muto (e anche non). Tanto per citarne alcuni: la donna-robot di Metropolis, i replicanti di Blade Runner, il robot di Terminator, l'essere di un altro mondo di Alien.


26 settembre 2007

Espiazione (Joe Wright , 2007)

Venti di guerra soffiano sulla tenuta di Tallis House, dove prende l’abbrivo l’inquietante storia d’amore tra Cecilia e Robbie, vista alternativamente a distanza prima attraverso gli occhi di Briony (sorella tredicenne di Cecilia), poi, tramite un montaggio alternato che azzera la diacronia, attraverso lo sguardo di un’istanza “oggettiva”, sguardo costruito secondo un’estetica del particolare tanto ossessiva quanto poetica e coinvolgente. La piccola Briony, appassionata e visionaria creatrice di storie, osserva gli eventi a distanza sempre attraverso uno schermo, una barriera che deforma l’ottica e devia la luce sulla superficie dell’immagine stessa. Dapprima, distratta da un’ape vista in primissimo piano, dai vetri della finestra vede la caduta di Cecilia nella fontana, provocata da un impulso ossessivo di Robbie; poi “legge” la lettera sbagliata di Robbie, lettera vera ma non “opportuna”; in seguito sorprende Cecilia e Robbie aggrappati alla biblioteca in un amplesso consumato nella boiserie di famiglia; infine scorge, illuminati dalla sua torcia, i corpi di Lola e di un uomo che lei decide essere Robbie. Briony, da aspirante scrittrice, possiede una fervida immaginazione che annulla la sua capacità di saper carpire i particolari (scorge l’ape alla finestra e vede la spilla in terra). Briony non sa ricostruire i fatti, colmare le ellissi tramite gli indizi, perché il suo montaggio avviene attraverso una distanza abissale, le sue suture sono precarie e mal cucite, pertanto il suo sintagma risulta fuorviante. Ma l’errore non nasce dal falso bensì da una sorta di carenza, poiché qualsiasi contenuto di idee è vero. Come afferma Spinoza la sensibilità e l’immaginazione rappresentano solo il primo grado della conoscenza nel quale le idee si presentano in ordine casuale e confuso[1]. L’arte quindi non può realizzare il mondo ma solo esorcizzarlo. Solo il falso (come dirà la Briony ormai vecchia affermata scrittrice)[2] può salvare l’arte dal “rischio” di cadere nella cronaca. Troppo grande è la tragedia della guerra, troppo incomprensibile per gli uomini, da non dare possibilità di inserirci una cruda, fredda, storia d’amore senza aggettivi e abbellimenti. Allora la decostruzione degli eventi è affidata alle immagini immani e straordinarie che pullulano nel film mostrando oggetti che si fanno volto, ma soprattutto volto che si fa nicchia del multiverso (più universi). In concreto gli oggetti ingranditi nel primo piano ma soprattutto il volto, mostrano l’opposto di ciò che nella poesia romantica tedesca viene definita Stimmung, ossia il volto ripreso nelle proporzioni del primo piano diventa ugualmente complesso e vario come un paesaggio [3]. Il film a mio avviso è fotogenico, non solo per la fotografia romanticamente perfetta quanto lo deve essere (le scogliere di Dover, il mare), ma anche perché si esplica attraverso pulsioni simboliche magistralmente orchestrate da Wright: 1) ACQUA come annegamento e morte: Cecilia che si tuffa nella fontana, Cecilia che annega nella metropolitana di Londra, Briony tredicenne che si butta nell’acqua fredda del ruscello; 2) SPECCHIO come sguardo del doppio: quello della macchina da scrivere e quello dove si riflette lo sguardo di Cecilia; 3) ALTO E BASSO come capovolgimento della fortuna: Robbie in vasca da bagno che vede il bombardiere volare in alto sopra il lucernario; Robbie a Dunkerque che vede il bombardiere riflesso nel canale (qui però Robbie lo vede fuori campo, ma siamo noi a testimoniare questa visione). Unica eccezione all’errore è la morte. Infatti solo la morte può essere vista a distanza (le collegiali trovate morte da Robbie, il cavallo che stramazza al suolo colpito dagli inglesi, in parte anche il francese che muore nel letto del S. Thomas Hospital), perché la morte (questa è pure una mia ossessione estetica) rappresenta un momento di verità. E infatti la vecchia Briony è costretta a confessare la sua tentata rimozione (Cecilia e Robbie morti e mai ricongiunti), ma non importa, perché la morte si può nascondere, ma non abolire (chi avrebbe creduto il contrario vedendo Robbie già delirante e senza cure sul giaciglio del rifugio colpito da setticemia?). Ma prima della morte, la vita, sottolineata da un piano sequenza forse fra i più lunghi della storia del cinema, metafora del soggetto che osserva (la vita non è un continuo piano sequenza?) ma anche precisa scelta stilistica. Infatti il “famoso” piano sequenza della spiaggia potrebbe sembrare un po’ calligrafico, ma accompagnato alle immagini di Robbie che si staglia nello schermo dove viene proiettato “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, diventa un gioco stilistico che mostra l’intollerabile (mi ricorda l’eruzione di “Stromboli” vista da Ingrid Bergman). Nel “Porto delle nebbie”, dove si mostra il bacio di Jean Gabin e Michéle Morgan, Jean sarà ucciso e qui il cinema anzi il CINEMA ci dice che Robbie è già morto. La sequenza del porto è il mondo stesso che se lo sta portando via: la folla dei soldati, i cavalli, il gruppo che canta, una grande ruota del luna park e la distruzione (macerie ovunque) di una guerra che Wrigth ci fa vedere attraverso gli effetti (macerie, morti, feriti), sono il suo inferno personale di un non ritorno. E tutto ciò, se ricordo bene (di sicuro nei titoli di coda c'è), mentre un pianoforte sottolinea l’evento, come impressione momentanea nel reale ma permanente nella memoria [4], nell’eseguire una musica extradiegetica che lascia sensazioni indefinite, addentrandosi in luoghi sfumati dai colori tenui accostati senza grandi contrasti cromatici: il Chiar di luna di Debussy , mio adorato compositore impressionista.


[1] Spinoza, Etica. Mi scuso per la parziale e imprecisa citazione su Spinoza, ma non ho avuto il tempo di rileggere un autore che ormai è riposto nei miei lontani ricordi liceali.
[2] «Mi piace pensare che non sia debolezza né desiderio di fuga, ma un ultimo gesto di cortesia, una presa di posizione contro la dimenticanza e l'angoscia, permettere ai miei amanti di sopravvivere e vederli riuniti».
[3] La Stimmung si riferisce a un’atmosfera malinconica in cui oggetti, spazio e luoghi prendono le caratteristiche di un volto (G. Simmel, Filosofia del paesaggio).Béla Balázs definisce il concetto di fotogenia nel cinema come un volto umano che, ingrandito nelle grandi proporzioni del primo piano diventa complesso e vario come un paesaggio (B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova).

[4] I pittori impressionisti percepiscono la realtà attraverso le impressioni della luce, dei colori, del vento che smuove le foglie e i vestiti, ecc., impressioni che cambiano da osservatore a osservatore, da pittore a pittore, da uomo a uomo.


Clair du Lune from Suite Bergamasque composed by Debussy




23 settembre 2007

Idioti (Lars von Trier, 1998)

Alcuni giovani danesi decidono di fare gli idioti per sperimentare le reazioni della gente, ma anche e soprattutto per cercare il piccolo idiota che c’è dentro ognuno di noi. L’esperimento si rivelerà traumatico ma anche liberatorio, soprattutto per Karen, entrata a far parte del gioco quasi per caso. Nell’ultima sequenza Karen aprirà infatti una finestra sul lato oscuro del suo inconscio, per mostrarci l’opacità delle immagini nonostante la loro apparente trasparenza, ma anche per cercare l’idiota dentro di sé. Idioti, o Dogma 2, è il secondo film (il primo è Festen di Vinterberg) girato seguendo le ferree regole (ma fatte anche per essere infrante) di Dogma 95. La sintassi in effetti è un “voto di castità” perché la location è naturale, la colonna sonora diegetica, le scenografie artificiali sono bandite, mentre le riprese risultano rigorosamente eseguite con videocamera a mano. Come richiesto dal voto di castità il film è a colori mentre la luce è quella naturale degli ambienti; inoltre il film “avviene qui e ora”. La storia è provocatoria, ma solo apparentemente irritante. Innanzi tutto viene definito un incontro di persone unite in un’esperienza di gruppo (con conseguenti risultati anche non codificabili dallo standard del “comune sentire”) che porterà questi "idioti" verso un’incompiutezza dell’azione quasi ai limiti dell’inazione. Ossia, il vivere un gioco tutti insieme, rispettandone le “regole”, per rompere le regole di un mondo che ci vuole “così come dobbiamo essere”, non può che portare ad un’impasse psico-motoria. Il movimento pertanto non si trasferisce da un raccordo all’altro, ma rimane confinato nell'immagine stessa. Non a caso vi sono sovente bruschi stacchi del montaggio e si vedono nelle inquadrature microfoni e telecamere, deittici che sono lì per mostrare il meccanismo del fare cinema, per di-mostrare quindi che l’azione-inazione dei personaggi-attori coincide talmente che è difficile distinguere i marcatori[1] dei punti di vista così come quelli della location. Il montaggio, sempre brusco, violento ed imprevedibile (o meglio, le giunte tra le sequenze), rappresenta il momento fondamentale dell’inazione rapportando e/o frammentando spezzoni di inabilità e impotenza psico-motoria, nonché mostrando pezzi di “vissuto” (gli attori erano quasi liberi di muoversi come in un flusso continuo) e brandelli di convenzioni infrante. Ma come in un’epifania joyciana[2], questo materiale imprevedibile ed incontrollabile si forma in un evanescente e labile attimo del tutto inattaccabile (mi rammenta l’attimo della morte dei film di Godard: un frame-stop indelebile). L’epifania sopraggiunge nella scena della torta, dopo che Karen è fuggita senza neppure recarsi al funerale del suo piccolo bambino: espellendo dalla bocca pezzi di torta masticata (oltre a cercare il bambino dentro di sé come metafora psichica di una ricerca fisica dell’anelato figlio morto), Karen unifica tutto il materiale filmico di oltre un’ora in un unico spezzone di scena. La torta biascicata e spumosa che scivola sul mento è il delta dell’equazione[3] il cui risultato, nell’insieme matematico-filmico della materia, è minore di zero, pertanto impossibile nell’ordine dei numeri razionali. Una discriminante[4] che non dà soluzioni plausibili. Ma l’epifania, che collega insieme pseudo-idiozia, ri-costruzione mentale dello spettatore, nonché biascicamento con schiaffo (il marito di Karen la schiaffeggia interrompendo il flusso magico dell’inazione), riesce a superare l’impasse forse per un attimo “mostrandoci” l’interno dell’interstizio delle immagini. Nel rivelare pertanto la Verneinung [5]come un confine, oltrepassato il quale non è possibile tornare, e nell’annunciare la rivelazione che il mondo non sarà più visto con gli stessi occhi, l’epifania lascia nel corpo come una scossa evocatrice di senso. E… per un attimo ho avuto una sorta d’epifania e… ho pianto.


[1] Nel senso di segnalatore di immagini classiche
[2] Per Joyce “Epifania” è «momento in cui la realtà delle cose ci soggioga come una rivelazione».
[3] L’idea di sequenza cinematografica come equazione è stata da me ripresa dalla teoria della funzione poetica di Jakobson. “La funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione. L’equivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della sequenza. […] La poesia e il metalinguaggio sono tuttavia diametralmente opposti: nel metalinguaggio la successione è usata per costruire un’equazione, mentre in poesia l’equazione serve a costruire la successione”. In Romam Jakobson, Saggi di linguistica generale, p. 192 (il grassetto è mio).
[4] La discriminante dell’equazione matematica.
[5] Verneinung, ossia Denegazione, negazione che afferma. Sandro Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema p. 169. “Quell’atteggiamento contraddittorio definito da Freud come denegazione […]: lo spettatore sa infatti di trovarsi davanti alla proiezione di ombre […] eppure si commuove”.

20 settembre 2007

Eyes Wide Shut (Stanley Kubrick, 1999)

Durante la visione la mia mente non si allineava alla narrazione, non c’era contatto, desiderio d’identificazione con il personaggio principale, le immagini scorrevano senza lasciare impronte sulla retina, i colori riempivano lo sguardo senza mostrare le forme degli oggetti; le parole, le frasi scivolavano nelle orecchie ronzando come vaghi disturbi lontani. Forse una interferenza nel corpus kubrickiano? Lo so, Kubrick era già morto e non si sa quanto di lui c'è nel film. Ma ho deciso di andare avanti, ricordando che Kubrick ha sempre lottato contro l’illusione di realtà, contro il coinvolgimento e l’identificazione dello spettatore. Suo motto falsificare il tempo, lo spazio, la recitazione, la violenza. Ho cercato di afferrare la falsificazione, conoscere il gorgo in cui può trascinare un film di Kubrick. Solo un tentativo naturalmente. E mi sono reso conto che potevo annegare senza possibilità di scorgere un lembo di terra in lontananza. Anneghiamo pure allora, se è il prezzo da pagare, oppure dotiamoci di branchie, perché qui si tratta di respirare cinema allo stato puro. Nella casa del Dott. Harford non succede nulla. Alice che si spoglia, sta sopra il cesso, si tira su le mutandine (e ci aspettiamo sesso), parla con il marito. Bill si muove nella casa rimanendo sempre al centro del quadro, mentre nel travelling le pareti, il corridoio, scorrono ai lati, i colori defluiscono. Il movimento è immobile. Nella casa non si va da nessuna parte, non si dialoga, non si fa sesso (si immagina solo di farlo) non si ama né si odia (si immagina) non si mettono le corna (si immagina). Ma si gioca. I personaggi giocano ad identificarsi in qualcosa o qualcuno che non potranno mai diventare. Harford gioca a corteggiare due invitate alla festa, mentre Alice gioca a farsi corteggiare, gioca a fare la prostituta senza esserlo; la figlia di Milich (nel Raimbow Fashion’s) gioca a fare la brava figlia di papà senza riuscirci (viene di fatto scoperta in un amplesso con due uomini). Marion gioca a tradire il fidanzato. Domino gioca a fare la moglie di Harford, ad avere una vita normale. Ci sono codici ovunque: della vita mondana, della strada, regole da seguire per non rimanere fuori dal gruppo. Il codice della vita mondana è molto complesso, bisogna porsi la maschera per nascondere la verità: ad esempio si fa sesso continuamente senza darlo a vedere (dialogo tra Bill e le due donne alla festa di Ziegler o il ballo tra Alice e Sandor Szavost); oppure si compiono reati come fossero buone azioni (la prostituta nuda in overdose nel bagno di Ziegler, il dott. Harford che la cura senza denunciare il fatto). I codici della strada sono apparentemente più semplici. Eppure Harford, che si muove a suo agio nella mondanità, non regge all’impatto della strada (lo scontro con il gruppo di ubriachi lungo il marciapiede, l’incontro con la prostituta Domino, o nel Raimbow Fashion’s con Milich, il noleggiatore di costumi, o con la figlia di Milich che imbarazza il dottore sussurrandogli qualcosa nell’orecchio). Non ne conosce i codici e deve imparare alla svelta: è un percorso dove i tasselli devono combaciare altrimenti la cosa non funziona. Sta imparando, ma purtroppo il sogno (uscire dai segni, dal simbolo per apprezzare la purezza del significante) lo trascina verso il doppio esatto della festa di Ziegler. “Happy Holiday”, sta scritto su di uno striscione lungo il percorso del taxi che lo porta nel castello dell’orgia. Qui i codici sono apparentemente inviolabili, come monadi indistruttibili ed impenetrabili. Solo una parola d’ordine, un ipercodice può permettere l’accesso al castello. Dentro è tutto finalmente chiaro: Bill vede le maschere indossate dagli uomini, vede i riti di iniziazione, il sesso esplicito: non orgia metafora della festa ma festa metafora dell’orgia. Da spettatore non potrebbe resistere con gli occhi chiusi(1) davanti allo spettacolo dell’orgia, né con l’immaginazione interpretare la parte degli attori che fornicano in tutte le posizioni. Si toglie la maschera-benda (“gli tolgono”, ma di fatto la programmazione dei suoi errori è talmente banale da determinare una precisa volontà) e l’esplosione di luce lo ricaccia nel quotidiano (nell’illusione di realtà) dove tutto è minuziosamente codificato. Bill e Alice (che gli rivela di aver sognato la stessa orgia in qualità di praticante-attrice) rientrano violentemente nel verosimile, nell’illusione, nell’immagine-azione che percuote continuamente i nostri sogni costruendo, come un filo che cuce due lembi strappati, sintagmi di immagini e di significato. Ma le suture sono finzioni, sono tagli fatti e ricuciti dai montatori per gli spettatori. “Vedere” in questo caso presuppone tenere le palpebre serrate. Non ha importanza la verosimiglianza ma, anche se spesso siamo tutti più o meno assetati di “coerenza intima”(2) (paragonando immagini di film a sistemi mentali diegeticamente coerenti non potremo mai penetrare nei labirinti pseudomentali di Kubrick), bisogna tener conto dell’effetto di reale(3) (i particolari che prendono il sopravvento scoprendo il meccanismo). Per questo gli occhi non possono che essere chiusi (o tagliati come direbbe Buñuel) perché l’esplosione della luce emanata dallo schermo accecherebbe quelli che invece gli occhi pretendono di tenerli decisamente aperti. È una questione di protezione. Proteggere la visibilità con la cecità, il racconto con l’analogia, la vita con un ipercodice (Fidelio). Proteggere presuppone però un salto di qualità di quel concetto di “sapere” che è alla base del funzionamento stesso di un film. Non il sapere acquisito con l’indagine che porta Harford a ripercorrere quei luoghi in veste di osservatore, già incontrati la sera avanti in veste di sognatore. Il sapere non è una superficie (la pellicola che scorre ad esempio) ma una sorta di débauche(4), un lasciarsi andare all’orgia della vita. Quando Alice alla fine del film risponde alla domanda di Bill (Cosa dobbiamo fare?) con “scopare”, non fa che rimarcare l’avvenuto salto di qualità all’interno del rapporto tutto mentale Harford-Alice, spettatore-mondo, diegetico-iconico: sapere di immaginare di scopare è insomma molto meglio che immaginare di sapere scopare.


(1) “[L’]esperienza del vedere […] è un’esperienza in cui ciò che vediamo è determinato anche e soprattutto da ciò che non vediamo.” S.Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze, 1994, p. 36.
(2) Galvano della Volpe, Il verosimile filmico, (1952), in Edoardo Bruno, Antologia del pensiero critico, Bulzoni, Roma 1997, p. 180.
(3) R.Barthes, L’effet de réel, « Communications », n. 11, Paris 1968, pp.84 e sgg. Il saggio, tradotto in italiano, si trova in: R.Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi 1988, pp.151-159. Da segnalare un’attenta ed esauriente spiegazione del termine inventato da Barthes in S. Bernardi, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Parma, Pratiche Editrice 1990, pp 174-176.
(4) Débauche, ossia dissolutezza. Ho ripreso questo concetto da Honoré de Balzac, La pelle di Zigrino.

17 settembre 2007

L'occhio che uccide (Michael Powell, 1960)

Fattore saliente del film, più del voyerismo, è la determinazione del padre-assente di filmare o rappresentare l'inaudito e la paura mettendo ad esempio nel letto del piccolo una lucertola. Il perturbante si raggiunge attraverso la paura del piccolo Mark che sfocerà nell’inconscio delirante del Mark adulto, quando diventato fotografo, osserverà distrattamente le modelle seminude affascinandosi però per una ragazza dal labbro leporino. Ma la sua eccitazione non è formale, nel senso che il corpo non rientra nel suo logos visuale. Non forma ma pensiero. L'ethos di Mark diventa espressione di sdoppiamento, di rinvio, di indugio mentre l'inaudito diviene uno dei nuovi "paradossali paradigmi di riferimento" ("Waldenfels, La responsività del proprio corpo). L'inaudito quindi rappresenta la ricerca del terrore nello sguardo della vittima che è spesso una donna dai capelli rossi (o tinti di rosso). Sesso e colore diventano il supporto, la custodia carnale dell'immagine del terrore riflesso nella lente deformante mostrata alla vittima (uno Squid ante litteram?). L'ossessione filmica diventa ossessione per l'immaginario, una incapacità di vivere la vita reale, o meglio incapacità di decodificarla. In altri termini l'incapacità di vedere il reale, mostrando il reale, è l'atto stesso della menzogna. Il film mente, falsifica tutto. A questo proposito risulta interessante la scena in cui il padre-assente entra in campo, affidando alla moglie la macchina da presa per sistemare il bambino: poiché a questo punto l'immagine si sfuoca, torna indietro rimettendo a fuoco l'immagine. Questo è diegeticamente impossibile, perché siamo noi spettatori a guardare la scena che va fuori fuoco, mentre lui non avrebbe dovuto vederla. Ma il regista (ogni regista) possiede la sensibilità magica, possiede l'onnipotenza del mago per fare quello che riesce a fare. Nel reale non è possibile ma a livello metaforico sì. Powell non era capace di riprodurre uno spazio realisticamente, infatti nel film siamo di fronte a una falsificazione perpetua. Mai un'immagine naturalistica, ma tutto quanto è artefatto: colori incredibili, troppo saturi, personaggi inverosimilmente truccati, filmico ridondante di contrasti eccessivi. Questo ha creato una grande tradizione portata avanti da altri registi iperrealistici (Fassbinder). Nel film c'è un lavoro di finzione (d'altronde il Cinema è fiction o no?): la macchina da presa che viene incontro sembra nascosta nel montgomery mentre le immagini che vediamo nel mirino sono all'altezza degli occhi. Anche le vittime di questo personaggio sono delle finzioni, sono delle rappresentazioni, momenti in cui si forma l’immagine della recitazione. Questa ossessione immaginaria del Cinema, questo bisogno di finzione, è orientato al reperimento della verità che si considera interdetta a quella che è l'esistenza (fotografica). Per Powell la visione è tutto e questa visione che si crea il proprio oggetto non esiste per affermare la finzione dell'immaginario, ma per evidenziare il luogo della finzione che diventa l'unico dentro cui reperire un momento di verità. Nella scena in cui Mark spia l’arrivo della polizia sul luogo del delitto, l’ossessione del vedere riguarda tutto (proprio il contrario del cinema-verità) e il momento della verità viene contraddetto proprio dal fatto che il personaggio cerchi la falsificazione e attraverso questa cerchi la verità. Nella realtà in sé non esiste questa definizione; la realtà deve essere sempre filtrata: incomprensibile, frammentaria, ha bisogno della sua finzione per essere interpretata. La verità in sé esiste solo come non-luogo, non è mai visibile, ma può emergere solo come una serie di artifizi. Proprio per questa impotenza davanti al mondo, Mark non può che cercare l’unico momento di verità assoluta nella morte. Infatti il volto deformato dell’attrice che porta sui di sé i segni della morte è l’unica certezza del momento che non lascia repliche: il volto dell’attrice porta su di sé i segni dell’impossibilità di una finzione. L’atto del rivedere imprigionato il fantasma della paura, impresso in un attimo di verità, rappresenta il bisogno inconfessabile di credere, credere, credere comunque in qualcosa.

14 settembre 2007

Io non sono qui (Todd Haynes, 2007)

Un impressionante susseguirsi d’immagini e suoni, un flusso di parole in libertà tra le sequenze delle sei storie che s’intersecano allontanandosi o incontrandosi come crocevia di strade che si biforcano cercando proprie direttrici senza mai arrivare in porto. In fondo ciò che conta, quando viaggiamo, non è la destinazione, ma il viaggio stesso. La bellezza di questo film è la sua stessa espressività linguistica, è l’atto stesso del suo formarsi nel lasciare sempre, in ogni immagine, ampi spazi aperti alle emozioni di chi guarda. Il film è anche immagine-tempo globale (possibile?!), è un luogo mentale che sorge nell’attimo stesso in cui scorre. ‘Io non sono qui’ potrebbe essere definito un film in fieri. In effetti sappiamo benissimo che il film accade e ri-accade ogni volta differente nella mente di chi guarda, ma è già accaduto sulla pellicola avvolta nella bobina. Il film non è il teatro, perché è un media e pertanto prodotto finito, confezionato, impacchettato, presto pronto per ritrovarsi masterizzato su un DVD . Ma la sensazione è di una espressività dinamica, ovvero il non detto e il non visto, che ogni film lascia al libero arbitrio dello spettatore, qui richiede uno sforzo maggiore, richiede la capacità non solo di costruire ma anche di de-costruire le varie sequenze. In altri termini: un’ellissi tra due sequenze viene “coperta” dalla mente che si immagina lo spazio vuoto e ricostruisce le parti mancanti, mentre qui si chiede di ri-costruire gli interstizi ma anche di de-costruire la visione. C’è un doppio movimento: riempire gli spazi e svuotare i contenuti delle immagini per montarle ogni volta differenti. È un montaggio per corrispondenze: ossia il ritmo del montaggio si impone come tale, prende il sopravvento sul contenuto: come afferma Wenders bisogna impedire alla storia di “succhiare il sangue delle immagini”. Pertanto il montaggio si stabilisce attraverso ritmi e rime (Vincent Amiel). Con il ritmo (stacco delle inquadrature) il tempo diventa il soggetto del film. Le varie sezioni che s’intersecano creano un ritmo continuo, un fluire omogeneo nella sua stessa eterogeneità; ad un certo punto non ci accorgiamo più dei passaggi dal colore al bianco e nero o della differenza tra immagini nitide e perfette (fotografia) e immagini sgranate e rovinate (reportage): vedi ad esempio la storia di Jude in bianco e nero scandita da primi piani su fondali più o meno naturalistici oppure vedi i colori saturi delle interviste ad Alice nella storia di Jack o le immagini di repertorio danneggiate dal tempo che ci mostrano l’avvento del tempo stesso. Queste differenze creano un surplus di senso, si condensano nell’immaginario entrando in un rapporto estetico diretto con lo spettatore: le immagini mi parlano e io parlo loro e il nostro dialogo (dovrei rivedere il film per rendermene meglio conto) sarà sempre differente ad ogni nuova visione. Emozioni. Gli echi tra inquadrature sono ancora più imponenti perché possono restituire delle rime: sono similitudini, sensazioni che aprono nella memoria esperienze di altri luoghi, di altri eventi, portano dal Dentro al Fuori e poi nuovamente, in un percorso inverso, riportano dal Fuori al Dentro. L’esperienza emotiva scaturita dalle immagini s’innesta con la mia esperienza emotiva, colpisce i segreti più intimi, le mie più estreme pulsioni che il mio superego riusciva a controllare (e che adesso lascia finalmente libere di “schiumare” all’esterno, nella parte conscia) estraendole e portandole nel film in un infinito percorso di andata e ritorno. Nel film vi sono moltissime rime: Jude che si stropiccia continuamente occhi e naso, le interviste a Jude fatte in ogni dove, l’incontro di Jude col poeta beat Allen Ginsberg o Jude e Ginsberg che chiedono a Cristo di scendere dalla croce; queste rime si suturano col percorso sintagmatico dell’incipit quando Woody salta sul vagone merci e nell’epilogo col vecchio Billy che viaggia sullo stesso vagone merci. Sarebbe interessante trovare tutte le corrispondenze, cercare le rime di questa stupenda poesia. D’altronde che il film sia qualcosa di diverso lo vediamo anche nei titoli di testa, quando appaiono per prime le ultime lettere del titolo del film e poi le prime lettere (come nel Bandito delle 11 di Godard), segnalando la decomposizione del corpo cui stiamo per “assistere”. Il film potrebbe anche essere letto come una originalissima storia del cinema e dei suoi movimenti (Godard, le interviste stile Zelig, i Beatles che corrono come nel cinema muto, il documentario costituito da “veri” pezzi televisivi e da parti volutamente riprese con le tecniche del Free Cinema). Potremmo discutere e scrivere a lungo su 'Io non resto qui', proprio perché, leggendolo come una poesia, con i suoi ritmi, le sue rime e la sua polisemia, ognuno consuma la visione rapportandola alla propria esperienza. Il film riesce a metterci in sintonia con l’alterità. Non a caso il poeta simbolista Arthur porta lo stesso nome di Rimbaud il cui desiderio era di diventare l’Altro (“E’ falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa” Lettera a Georges Izambard del 13 maggio 1871). Per tutto il tempo che ho abitato il film mi sono trovato bene. Abitarlo è stata un’esperienza estetica impressionante: ma è stato troppo poco. Non ho avuto il tempo di conoscere la casa e non vedo l’ora di ritornarci.

11 settembre 2007

Titanic (James Cameron, 1997)

Un film imponente: per la spesa e per gli effetti speciali messi in campo dalla Digital Domain con la computergrafica per creare acqua digitale, ma anche persone digitali. Un film che mette in scena l'attimo di un disastro, il mito della catastrofe, il sogno dell'America, nonché un modello attanziale (Greimas) basato sulla storia d'amore tra Rose, divina e raffinata ragazza aristocratica che viaggia in prima classe, e Jack, numero zero della marmaglia in cerca di fortuna che affronta l'epilogo in terza classe. Eppure, nonostante l'overdose di "realismo" proposta dal film e che Cameron ha voluto puntualizzare nel ricostruire una realtà ancor più reale dell'inabissamento del 1912, nel film vi sono zone non coperte, faglie non ancora studiate che potrebbero cedere, evanescenze, parvenze significanti che distolgono dai significati e che ci trasportano in una "zona morta" dove dominano l'incertezza del tempo e dello spazio. Mentre nell'intreccio siamo di fronte al clima sociale e politico degli anni dieci (ricchi che pagano cifre elevate per il biglietto e poveri che viaggiano rinchiusi sottocoperta senza mai vedere la luce), nella zona morta stiamo viaggiando tra i fantasmi. In fondo il Titanic è una nave fantasma che fluttua nell'Oceano dal 1912 e Cameron si è "limitato" a riprendere quegli ectoplasmi danzanti e quelle orchestre romantiche che suonano mentre il ghiaccio ribolle sui ponti e lo squarcio abbatte l'inaffondabile. Gli stessi Jack e Rose sono fantasmi, puro pathos di un altro luogo che non conosciamo se non attraverso le immagini impressionanti del cinema (nel senso che impressionano la nostra mente lasciando le stesse impronte degli oggetti quotidiani). Entrando nel labirinto dei ponti, scendendo la scalinata della splendida sala da ballo, sdraiandoci in poppa a prendere il sole o camminando tra le macchine infuocate che stanno in basso, non facciamo che entrare in quella dimensione evanescente e vacua del film che ci trasmette echi lontani, ci attanaglia l'animo con suoni distanti, e ci angoscia con le urla degli gli stunt-man digitali caduti/fatti cadere dall'alto della poppa sollevatasi perpendicolarmente prima d'inabissarsi. Il labirinto di emozioni fa da pendant al labirinto della nave, trappola/feretro per chi vi s'addentra, ma anche festa stile Overlook Hotel dove i fantasmi stanno festeggiando l'eternità dell'attimo. In fondo l'inabissarsi del Titanic è impresso da sempre nel nostro immaginario e la rievocazione di quelle due ore e quaranta fa riemergere questi spettri abbandonati alla storia. La ricostruzione del tempo non è lineare proprio perché il tempo della storia viene dilatato dal tempo filmico (il film dura più della tragedia) come un ralenti che vuole indagare/guardare, distillando i movimenti dei personaggi, per sondare l'attimo inesplicabile ed espanderlo fino a farlo esplodere. La nave è un non-luogo ossia uno spazio dello standard (Marc Augé), struttura dove nulla è destinato al caso perché all'interno tutto è precisamente calcolato: la macchina efficiente, strutturata, è il doppio dei tanti non-luoghi che frequentiamo nella vita di tutti i giorni (aeroporti, supermercati, strade, ecc.), è il non-luogo dell'accaduto, dell'eterno ritorno agli spettri e al loro mondo risucchiato dal mare. Ma la nave è anche labirinto di immagini, perfette, ritoccate dalla computergrafica, incredibilmente false nel loro incommensurabile realismo, immagini che scorrono come falde freatiche sotto la faglia in procinto di cedere. Mentre il tempo, rievocato, rivisitato, analizzato, sottomesso alla legge del business, forse riprende il sopravvento, quando negli occhi della vecchia Rose brilla l'attimo di un gioiello: il Cuore dell'Oceano che possiede la forza di formare il cristallo del tempo, simbolo nostalgico di un ricordo ancora racchiuso nel suo sarcofago marino e fulcro della mancata analessi che si apre sin dall'incipit (mancata perché non ritorna al presente del racconto). Come afferma Deleuze la nave è infatti il germe che insemina il mare, nave dalle due facce: quella vista dall'alto, "dove tutto deve essere visibile ordinatamente" e "una faccia opaca che è la nave che si vede dal basso e che si svolge sott'acqua". Quindi un non-luogo infestato da fantasmi danzanti (evanescenze ectoplasmatiche) immerso in un'assenza di tempo ove la tragedia è sempre lì, pronta per essere rivisitata, ricostruita ri-decodificata e tutto questo è racchiuso in un diamante sepolto "in una bara di freschezza" . Col mare/mi sono fatto/una bara/ di freschezza (Ungaretti, Il porto sepolto).

8 settembre 2007

Passion (Jean-Luc Godard, 1982)

Passion presuppone la presenza di uno spettatore-interprete in quanto il film rinvia continuamente ai materiali da cui è costituito e alle serie che attraversano il plot principale, ossia il presupposto narrativo (apparentemente relegato in secondo piano) qual è l'atto di girare un film, il set percorso dal flirt tra il regista polacco Jerzy e Hanna, proprietaria dell'hotel dov'è alloggiata la troupe. Il film di Jerzy (dal titolo Passion) parte dalle serie dei Tableaux vivants che vogliono ricostruire sin nei minimi particolari quadri celebri tra cui la Ronda di notte di Rembrandt, La Maya desnuda di Goya, la Presa di Costantinopoli di Delacroix, l’Immacolata Concezione del Greco, ecc. Il testo rinvia continuamente all'esterno, al di fuori di sé. Ad esempio, i famosi quadri ricomposti dai personaggi chiedono allo spettatore quale sia il ruolo avuto nella storia dell'arte da Goya o da Delacroix e quale sia il ruolo della luce in Goya o in Rembrandt oppure come si leghi il concetto del pittoresco, evocato dalle composizioni, con le altre serie che rinviano a loro volta all’esterno del testo (lotte sindacali, ménage a tre, ecc.). Qui il Fuori prende fisionomia concreta incentrandosi sulle serie dei vari tableaux che sono alternati all'intreccio "apparente" (il regista flirta anche con l'operaia balbuziente Isabelle la quale è stata licenziata da Michel, il proprietario della fabbrica dove lavora, perché impegnata nel sindacato). Il tableau della Ronda di notte, ad esempio, si presenta in un montaggio alternato con alcuni piani che mostrano Isabelle in fabbrica. Il contrasto è evidente: da una parte lo spazio artificiale e patinato del set assorto nell'evocazione di un evento artistico e culturale, che rimanda all'immaginario collettivo, con i dialoghi fuori campo tra il regista e la sua assistente (“Io non sono niente. Osservo, sposto, trasformo, al massimo elimino quel che è di troppo. Nel cinema non ci sono leggi. É per questo che la gente lo ama ancora”… “Non è vero. Vi sono le leggi. Intanto ci vuole una storia e bisogna seguirla. Questa è una legge”); dall’altra parte del montaggio alternato Isabelle che si trova schiacciata negli ingranaggi della fabbrica, immersa nel rumore e nel caos dei macchinari, oppure Isabelle che passeggia sul greto di un fiume inquadrata dall’alto dei rami di un albero. Anche le scene del rapporto amoroso tra Jerzy e Hanna (moglie di Michel), montate tra i tableaux e il seguente flirt tra Isabelle e il regista, come le continue lamentele di Jerzy che non riesce a trovare la luce giusta (“La luce non va. Non va da nessuna parte. Non viene da nessuna parte”), compongono altre serie che si alternano integrando le serie dei Tableaux vivants. Le varie serie sono naturalmente di differente tipologia (vi è una serie metafora, serie lavoro, serie evento, ecc.) e ciò che conta non sono le affinità, ma le differenze che intercorrono tra le serie stesse e il loro confondersi e mescolarsi (questo accade alla fine del film quando le serie, compenetrandosi, non possono che sciogliere l’intreccio). Nel cinema classico (ma – mi si scusi la polemica – sempre di più in quello post-moderno) la narrazione cinematografica è "discorso che utilizza brani di realtà”, data la particolare capacità riproduttiva del mezzo. In Passion invece si tratta di trovare relazioni tra le realtà formate dai materiali lavorati (De Vincenti "Il concetto di modernità nel cinema"). Queste realtà saranno di fatto tanto più produttive (cito sempre De Vincenti) "quanto più permetteranno una moltiplicazione creativa del senso di quegli stessi materiali in sé considerati". Mi rendo conto che il ragionamento è ostico, ma la modernità nel cinema sta tutta nella capacità del film di rimandare a qualcos'altro, di evocare emozioni profonde non solo con la narrazione (o nel caso di Greenaway col simbolismo o la pittura o la matematica) ma anche con le interazioni tra i materiali del film (sequenze, citazioni, rapporti dialettici e/o politico-culturali, ideologici) costituiti in serie, materiali che rimandano e rinviano al Fuori (ossia all'esterno del quadro) facendo leva sull'immaginario dello spettatore. Questo lavorio mentale funziona in parte anche con la narrazione, ma la narrazione tende ad assuefare l'immaginario dello spettatore meno attento, contribuendo alla creazione di cliché (che a volte non sono nemmeno presupposto del film ma Gestalt mentali). Comunque è anche vero che certi film possiedono un grado più o meno ampio di ripetizione automatica di atti linguistici o iconici (linguaggio, immagini, montaggio) creati appositamente per suscitare emozioni preconfezionate.

5 settembre 2007

Blade Runner (Ridley Scott, 1982)

Nei film di fantascienza fino agli anni settanta il futuro è visto come il regno del nuovis-simo. Persino '2001: Odissea nello spazio' ci mostra il futuro come luogo del nuovo dove tutto è appena inaugurato. Ma in Blade Runner il futuro è ancora più vecchio del presente: gli antichi siamo noi perché abbiamo in eredità il passato, perché il mondo invecchia. Il giovane, il nuovo, il bambino che a volte riemerge in noi tornano da un passato più o meno lontano. E la città che invecchia, la città assediata dal tempo è la Los Angeles di Blade Runner: una città tormentata da una pioggia incessante, ove quartieri e piazze degradati, palazzi pressoché disabitati, costringono la vita a concentrarsi in poche strade. È una città inquinata, dove la pioggia sembra pioggia radioattiva che cade incessante in un'epoca post-nucleare; una città simile a quelle odierne: vecchia, inquinata, violenta, destrutturata. La difficoltà di vivere in un posto simile è anche l'angoscia che si prova a non farsi capire, perché ormai nessuno può più capirsi (ad un certo punto Deckard riesce a fatica ad ordinare un piatto di spaghetti). La città non è quella a cui siamo/eravamo abituati, tipica del XIX e XX secolo, città come luogo dei segni, come rapporto di significato/significante, pertanto città identificabile e idealmente rappresentabile, una città ancora interpretabile o perlomeno ricostruibile diegeticamente dalla nostra mente, con dei confini, delle "regolarità" (un centro, una periferia, un monumento, un parco, un capannone industriale, una casa, un ufficio). Adesso la città come segno non esiste più. In altri termini, il rapporto tra significato e significante non può essere più ricostruito. Pertanto non è più una città diegetica ma iconica. C'è un'architettura definibile come oriental-barocca (pardon per la parola che avrebbe pretesa di neologismo) in una combinazione di strutture seicentesche, poi tardo-ottocentesche, ma anche tardo impero (si vedano le piramidi antiche e si veda la torre della polizia trasportata direttamente da 'Metropolis' di Lang). Siamo insomma davanti alle rovine di una città, come se futuro/passato/presente coesistessero insieme nella perdita totale del segno: una città già divenuta, non interpretabile, che la mente non può assemblare: città iconica, immagine della sua stessa destrutturazione, che l'uomo, per natura animale narrativo, non è in grado di comprendere. Le astronavi non sono il futuro, ma solo bus navette che non portano poi così lontano (l'extramondo è solo annunciato dalle animate mega pubblicità anestetizzanti). Le astronavi sono mostri immobili che non ruotano attorno alla torre della polizia (dal punto di vista dei passeggeri è la torre che ruota). Il loro atterraggio sulla piattaforma con moto circolare s'innesta nella rotazione della macchina da presa, pertanto il movimento risulta immobile: le astronavi non volano in Blade Runner perché è tutto imploso in una cellula persa nel tempo come un Big Bang all'incontrario che annulla la vita anziché iniziarla. Los Angeles è infatti uno spazio imploso non gerarchizzato (in 'Metropolis' la gerarchia dello spazio è fondamentale per la città). La confusione (linguistica, architettonica, spaziale, temporale) è anche antropologica. C'è difficoltà a distinguere i replicanti dagli uomini se non per la scadenza più limitata (la fine c'è per tutti, solo che i replicanti sono usa e getta non riciclabili). Ma la differenza tra i replicanti e gli uomini non è solo fisica o intellettuale, è anche "immaginaria". Chi sono infatti i replicanti? Solo alcuni "androidi" costruiti per lavorare nei luoghi più impervi? Quando Deckard fugge con Rachael e raccoglie l'origami dell'unicorno abbandonato da Gaff (il poliziotto che ama fare origami e sembra un essere sovrannaturale messo al di là del mondo per avere la visione onniscente sui "personaggi"-androidi) si rende conto che l'ispettore conosce i suoi sogni (Deckard ha sognato l'unicorno) e i sogni (come i ricordi) vengono innestati nei replicanti. Allora Deckard è un replicante? Blade Runner è un mondo di replicanti e i confini tra conscio e inconscio vengono rimescolati e nessuno sa più chi è e cosa fa e dove va. Dove fuggono i "due" replicanti? Nella versione del produttore fuggono in un film di Kubrick (vedi l'incipit di Shining identico all'epilogo di Blade Runner) mentre in quella del regista scompaiono dietro una porta chiusa. Usciranno mai dalla città? O rimarranno per sempre sepolti nel caos e nel labirinto di un pianeta imploso cercando un passaggio per l'Extramondo? Forse il film suggerisce che non esistono più uomini ma solo replicanti e "spettatori" che ne conoscono i sogni (o credono). Forse siamo in un mondo che si riproduce da solo, una Matrix ante litteram. Ma se non esiste più l'uomo allora cosa esiste? Il film sembra suggerire che esiste quello che esiste, esiste un "personaggio" capace di andare oltre i sentimenti umani, un contenitore di emozioni troppo profonde, troppo violente o romantiche, un personaggio che va oltre l'androide (l'androide è un computer nel mondo, il personaggio è un "mondo" aperto sul cinema), che supera quei limiti imposti dal suo costruttore . Ritengo che con questo film (siamo all'inizio negli anni 80) si entri definitivamente nel post-moderno (in Italia Bonito Oliva lancia i pittori della Transavanguarda che ri-collocano nel quadro la figura umana). La post-modernità afferma che tutto quello che è possibile scoprire non è nuovo, ma viene dopo il nuovo. Non c'è niente di nuovo da scoprire, unica possibilità è una rivisitazione di ciò che ci ha preceduto. Il film stesso è un replicante perché "replica" situazioni già messe in scena (Metropolis, letteratura americana degli anni '40, Hitchcock, ecc.), perché è un film costruito per frammenti (come sequenze, scelta del profilmico, contenuti), che mette in scena l'atto stesso della scomposizione (estetica del frammento), mette in scena l'impossibilità di definire o solo di interpretare il reale. È la fine della sicurezza apparente delle emozioni suscitate nello spettatore, perché è lo spettatore che registra come Gaff i suoi sogni nei personaggi, nella vana speranza di ricostruire l'utopia.

2 settembre 2007

Estetica della Nouvelle Vague

Il movimento prese il nome da un articolo dell’ “Express” che lo usò in un’inchiesta sulla gioventù francese degli anni cinquanta mentre il battesimo avvenne al Festival di Cannes del 1959 con il gran premio della regia a François Truffaut per il film ‘I quattrocento colpi’. I registi di questo modo nuovo di fare cinema sono stati dei critici e cinefili, soprattutto dei Cahiers du cinéma e André Bazin, morto nel 1958, padre putativo di Truffaut, si può considerare come il teorico della Nouvelle Vague (nuova ondata), anche se non sempre era d’accordo con i “giovani turchi”, i critici dei Cahier così chiamati da Bazin stesso e da Doniol-Valcroze. Tenne infatti un atteggiamento molto prudente e critico nei confronti della “politica degli autori” cui dette un'accelerazione Truffaut con il suo articolo pubblicato sui Cahiers du cinéma "Une certaine tendance du cinéma français" (n. 31 gennaio 1954). Riassumendo la posizione di Truffaut si possono enucleare tre concetti: 1) esiste un solo autore di film: il regista (pertanto veniva negata la paternità del film allo sceneggiatore); 2) solo certi registi sono autori, mentre altri non lo saranno mai; 3) non esistono opere, esistono solo autori. Bazin (n. 44 febbraio 1955) oppose il punto di vista della direzione dei Cahier nel famoso articolo “Comment peut-on être hitchococko-hawksien?”. Anche in questo caso si può riassumere il suo punto di vista in tre punti: 1) riconoscimento di un netto contrasto nella rivista rispetto alla considerazione dei grandi registi quali ad esempio Hitchcock, Hawks, Nicholas Ray, ecc.; 2) conferma della validità delle osservazioni dei giovani turchi perché trattasi di opinioni di specialisti; 3) individuazione di un comune punto di riferimento per tutti i redattori della rivista nel rifiuto di "ridurre il cinema a ciò che esso esprime". Il cinema della Nouvelle Vague è autoreferenziale (metacinema), è imprevedibile e si apre alla città, alla strada, all’esterno. La Nouvelle Vague è un movimento composito, a tratti contraddittorio, non ha un manifesto programmatico, non ha regole da seguire. I registi si pongono dei problemi, provano a cambiare un cinema (quello francese) che, nonostante la guerra, era rimasto ancorato ai grandi autori di qualità (Carné, Autan-Lara, Renoir, ecc.). Le scelte estetiche variano dalla sceneggiatura (il regista deve anche essere lo sceneggiatore del film), alla quasi assenza del découpage (no al découpage prestabilito e massimo spazio all’improvvisazione); dal filmico (gli ambienti naturali al posto delle scene ricostruite in studio), al sonoro (meglio la presa diretta della postsincronizzazione) e all’illuminazione (il più possibile naturale senza utilizzo di pesanti apparecchiature e pertanto utilizzo di pellicole ultrasensibili); finanche alla scelta degli attori (non professionisti o almeno professionisti esordienti). Naturalmente pochi film rispetteranno in pieno queste “regole”, sia per motivi tecnici (ad esempio la presa diretta –almeno nel 1959 – non offriva garanzie di qualità), sia perché gli autori lavoravano in modo indipendente, influenzandosi a vicenda e ricorrendo a scelte stilistiche dovute anche ai tempi. La Nouvelle Vague è anche il traffico parigino, la strada, le lunghe carrellate sugli Champs-Élysées, i caffè, i dialoghi di giovani studenti seduti ai tavolini e sulla “terrasse” dei Café dei Boulevards, commesse, casalinghe, studentesse che si prostituiscono per noia o per insofferenza. Aspetto fondamentale del movimento è di avere portato il cinema fuori dagli studi (prendendo spunto dal Neorealismo italiano): i ‘Quattrocento colpi’ di Truffaut, ‘Fino all’ultimo respiro’ di Godard, in parte anche ‘I cugini’ di Chabrol ci mostrano le strade di Parigi, il traffico, il caos dei Boulevards, ma anche una città come “dedalo oscuro” in cui tutti i personaggi si sentono minacciati (‘Paris, nous appartient’, di Rivette). Tanti altri film mostreranno Parigi e le sue contraddizioni da ‘Il segno del Leone’ di Rohmer a ‘Due o tre cose che so di lei’ di Godard. Altro aspetto la tecnica di registrazione e di ripresa che sembra di tipo amatoriale (famose le riprese da dietro le spalle di Godard) ma che mostra in realtà il bisogno di “uscire” dagli studi per seguire i personaggi con troupe leggere. Anche in questo caso il mito di un nuovo modo di fare Cinema si confronta con la realtà economica, poiché il regista deve fare i conti con i costi di un film che devono essere modesti. In realtà buona parte dei film veniva girata negli studi e gli autori si avvalevano di collaudati direttori della fotografia, utilizzavano découpage scritti spesso da professionisti. (Raoul Coutard, professionista del reportage, sarà operatore di Godard e Truffaut). Tra i codici della realizzazione del film, il montaggio risulta fondamentale. Caratteristico il montaggio di ‘Hiroshima mon amour’ di Resnais con l’alternarsi di immagini del presente di Hiroshima con quelle del passato di Nevers, anche se l’estetica del regista della Rive Gauche non coincideva con quella della Nouvelle Vague perché Resnais solitamente effettuava riprese in studio, credeva nella sceneggiatura e nel découpage, ricorrendo costantemente a famosi sceneggiatori tra cui Marguerite Duras o Alain Robbe-Grillet, dirigeva gli attori e concepiva la colonna sonora fondata sulla postsincronizzazione. In particolare per il montaggio l’autore più innovativo è Godard; si pensi alle tante sequenze dilatate o interrotte di ‘Fino all’ultimo respiro’ fatte di scene tagliate d’improvviso senza rispettare i canoni del cinema classico, composte da immagini riprese con tagli inusuali (da dietro le spalle, carrellate rettilinee o circolari). Anche Jacques Rivette e Rozier sperimentano un montaggio “allegro” basandosi più sul suono sincrono. Nel contesto di queste sperimentazioni Jean Rouch realizza (con le innovazioni tecniche la sincronizzazione della registrazione suono-immagine si semplifica grazie a nuovi modelli di magnetofoni), collaborando con Edgar Morin, ‘Chronique d’un été’ del 1961, che diventerà ben presto il manifesto del cinema-verità. Anche Godard comincia ad utilizzare la presa diretta con il film inchiesta sulla vita di una prostituta parigina, ‘Questa è la mia vita’. Generalizzando e semplificando, i registi della Nouvelle Vague si possono suddividere in due gruppi: il primo meno rispettoso delle scelte stilistiche espresse sin dal tempo dei “Giovani turchi” legato più ad un cinema narrativo (anche se spumeggiante ed innovativo) in cui possiamo annoverare François Truffaut, Paul Chabrol, Agnés Varda, Pierre Kast, Jacques Demi; il secondo più attento all’estetica propria della Nouvelle Vague atta a eliminare la linea di separazione tra finction e documentario, gruppo composto da registi che sono stati influenzati in misura differente: Jean-Luc Godard (si può definire colui che incarna più di tutti lo spirito genuino e brioso del movimento avendo rispettato quasi del tutto i propositi a cui i registi della Nouvelle Vague volevano attenersi), Eric Rohmer, Jaques Rivette, Jacques Rozier. Altri registi invece oscilleranno, a seconda dei film, dall’estetica di un gruppo a quella dell’altro. In conclusione per definire la Nouvelle Vague non è sufficiente stilare un elenco delle scelte estetiche, o individuare nei film gli stilemi che hanno cambiato il modo di fare cinema; al contrario bisogna tenere conto del clima culturale e politico di quegli anni, considerare che la Nouvelle Vague è stato anche un movimento di liberazione dal modo classico di produrre cinema coinvolgendo nel cambiamento ogni aspetto della ripresa: dal découpage, al montaggio, alla recitazione, all’utilizzo di attori “diversi”: si pensi a Jean Paul Belmondo di ‘Pierrot le fou’ oppure al Jean-Pierre Léaud dei tanti film di Truffaut e si pensi a Brigitte Bardot ad Anna Karina (magistrale interprete di ‘Pierrot le fou’ e ‘Questa è la mia vita’) o Bernadette Lafont (‘Le beau serge’). Al contrario altri attori e attrici come Stéphane Audran (‘Stéphane una moglie infedele’ di Chabrol) o Delphine Seiring (una delle attrici preferite da Resnais) rientrano nel modello di recitazione del cinema classico. Eppure, nonostante l’assenza di alcuni parametri atti a definire la Nouvelle Vague una scuola (corpo dottrinale minimo critico, programma estetico, pubblicazione di un manifesto, gruppo omogeneo di artisti, supporto editoriale capace di far conoscere le posizioni del gruppo, strategia promozionale, leader, avversari) “[…] la Nouvelle Vague è una delle scuole più solide e coerenti della storia del cinema” (Marie). Un’altra prova della complessità di un movimento che non può essere definito con slogan o semplificazioni, ma è ancora tutto da studiare e analizzare non solo dal punto di vista estetico e culturale ma anche sociologico e politico.

Bibliografia
Michel Marie, La Nouvelle Vague – Lindau
Giorgio De Vincenti, Il cinema e i film. “I Cahiers du cinéma” 1951-1969 – Marsilio
Jean-Luc Godard, Introduzione alla vera storia del cinema – Editori riuniti
François Truffaut, I film della mia vita - Marsilio