30 agosto 2007

Giochi nell'acqua (Peter Greenaway, 1988)

Greenaway organizza il materiale a prescindere dalla narrazione. Da pittore vede lo schermo come una tela bianca sui cui dipingere. Indebolendo la narrazione, non seguendo più le regole filmiche che sono alla base della struttura del cinema classico (punto di vista, focalizzazione, ocularizzazione, ecc.), è costretto ad inventarsi altri modi per organizzare il profilmico. In Giochi nell’acqua sono soprattutto i numeri a determinare la scansione del film, ad influenzare gli eventi e la storia che non sono strutturate di per sé, ma solo in funzione dell’immagine pittorica e del simbolo. I numeri che appaiono nelle immagini (da 1 a 100) scandiscono lo scorrere delle sequenze che non sono più determinate dai nuclei narrativi, ma dal colore e dalle citazioni pittoriche. Gli omicidi dei tre mariti da parte delle rispettive mogli (nonna, madre e nipote) non sono fondamentali per il film (i tre uomini vengono annegati per motivi più o meno futili) ma contano soprattutto per la loro stessa rievocazione, per la ricostruzione pittorica dell’evento elaborato con estrema precisione da Greenaway. L’ambientazione dei tre omicidi è eseguita ripercorrendo in parte la storia della pittura: nel primo omicidio domina la pittura barocca, nel secondo la pittura vittoriana ottocentesca e nel terzo la pittura metafisica; citazioni pittoriche si trovano comunque in tutto il film. Le tre donne (anzi un'unica donna visto che portano lo stesso nome: Cissie Colpitts) sono ispiratrici di sentimenti ed emozioni, mentre gli uomini, concentrati a costruire eventi (legge, storia, regolamenti) non possono che soccombere di fronte all’imperscrutabile divenire del mondo. La donna uccide “i significati” col delirio della sua scelta: decostruire gli eventi. Al contrario le fantasie e i sogni dei bambini che tentano pur sempre di spiegare il mondo, di dare un nome alle cose, evaporano nel nulla incontrastato della fine. La bambina, (che nell'incipit del film conta, nominandole mentre salta la corda, cento stelle) muore investita da un'auto: il tentativo di dare un significato al cielo (ordinando le stelle con i nomi) scompare così nell'oblio della morte. Stessa sorte capita al piccolo Smut, ragazzo che inventa i suoi giochi e che colleziona insetti morti sperando di difendersi dall’incomprensione del mondo. Impiccandosi ad un albero, con la stessa corda usata dalla bambina per saltare, pone un termine all'estenuante ricerca dei numeri: catalogare insetti, raccogliere, giocare è anche un tentativo di fermare il tempo. Ma la profondità del film va oltre il valore dei simboli e dei numeri (si possono trovare mille spunti, mille modi di analizzare il film). Anche la matematica, come organizzazione dei colori o come deittico che mostra l’atto stesso del fare cinema (i numeri come i ciack della Cinese di Godard) fallisce davanti alla natura, al sesso, alla morte stessa. L’acqua, base della vita, può trasformarsi in morte per un banale gesto istintivo(!), per un incomprensibile attimo differente dai tanti che crediamo di controllare. I giochi nell’acqua sono destinati a fallire. Neppure i numeri riusciranno a decifrare i colori.

27 agosto 2007

Tempeste sull'Asia (Vsevolod I. Pudovkin, 1928)

Bair, cacciatore mongolo, recatosi al mercato per vendere una pelliccia, aggredisce un compratore occidentale, facendosi arrestare. Nel momento in cui sta per essere ucciso viene salvato dal comandante, il quale ha scoperto poco prima un manoscritto nascosto nell'amuleto del cacciatore in cui è scritto che Bair è il diretto discendente di Gengis Khan. I colonizzatori decidono di usare il prigioniero per i loro scopi e lo nominano eroe nazionale facendolo un imperatore fantoccio. Ma ben presto il cacciatore mongolo, acquisita una coscienza rivoluzionaria, guiderà la rivolta del suo popolo contro gli oppressori. In questo film il reale non serve per fotografare il paesaggio mongolo ma per poeticizzare una storia, dal momento che si tratta di salvaguardare la cultura di un popolo. Il personaggio, ormai in procinto di essere ucciso, viene come resuscitato acquistando un nuovo corpo (Gengis Khan), perché c'è il bisogno di creare un eroe per l'interesse dei colonizzatori. Le motivazioni sono ideologiche e le inquadrature naturalistiche danno l'impressione di una descrizione del Reale pressoché perfetta; ma prevalgono gli aspetti fantastici: amuleto al collo, personaggio che viene "riportato in vita" per dare un segnale al popolo. Siamo davanti ad una storia paradossale dove l'impossibile diventa possibile in un quadro quasi realistico. Pudovkin costruisce un impossibile (l'erede di Gengis Khan, il manoscritto, gli invasori che all'epoca non erano nemmeno presenti in Mongolia) che col cinema diventa verosimile. In questo film viene illustrato un fantastico che diventa reale. La finzione trova nel linguaggio la sua determinazione; attraverso la forma della finzione la storia acquisisce connotati realistici e verosimili. E per Pudovkin la forma della finzione fondamentale per creare l'illusione del reale va trovata nel montaggio. Montaggio come strumento di narrazione epica, "[...]vero linguaggio del regista;[...]; atto [...]cruciale nella produzione di un film [...]. Quello che per uno scrittore è lo stile, per il regista è il suo modo particolare ed individuale di montaggio" (Pudovkin, "La settima arte"). Per Pudovkin il regista possiede materiale grezzo (la pellicola impressionata) con cui costruire sintagmi e inquadrature per formare la rappresentazione filmica, perché il regista non ha a disposizione la realtà, ma solo il supporto dove questa realtà è stata registrata. Il regista compone la realtà filmica escludendo tutti quegli spezzoni che non sono funzionali alla storia (montaggio costruttivo).

24 agosto 2007

Contact (Robert Zemeckis, 1997)

Un viaggio mentale nelle pieghe dello spazio-tempo dell'immagine. Un sogno ad occhi aperti sperando di trovare un contatto "fisico" con la conoscenza e un contatto psichico con i propri cari defunti. L'ipertecnologico film di Zemeckis mostra il desiderio di Ellie Arroway (una splendida Jodie Foster) di sperimentare un incontro con gli alieni, costruendo, grazie ad un progetto nascosto nell'onda portante di un messaggio arrivato da Vega, un'astronave capace di solcare gli spazi siderali. Ma il suo sarà soltanto un viaggio all'interno della propria mente (l'astronave non partirà mai): luogo di immagini pure ed incorporee, un mondo desiderato, cercato, mondo primordiale di acqua e sabbia dove l'Alieno ha il volto del padre defunto e dove il cielo stellato, anch'esso fluido, può essere toccato con un dito. L'emozione provata, oltre che di meravigliosa visione, è soprattutto tattile. D'altronde il contatto non può essere solo visivo, ma esperito anche come "visione palpabile": toccare un mondo alieno per conoscerlo meglio vale più di mille parole, più di mille discorsi. Un abbraccio è più emozionante di una sequela di spiegazioni. Ellie Arroway è stata veramente su un altro mondo (l'astronave è caduta in mare dopo un attimo ma per Ellie sono trascorse diciotto ore) ed ha veramente visto la costellazione di Vega, ha toccato le stelle, calpestato la sabbia, camminato lungo le rive di un oceano alieno. Ha intrapreso un lungo viaggio dentro se stessa, per se stessa, non per l'umanità; ha convinto il governo americano a fidarsi del progetto extraterrestre non per costruire una macchina capace di solcare lo spazio, ma per penetrare fisicamente nelle pieghe del suo intimo spazio-tempo. Ma dov'è nascosto in fondo il "punctum" barthesiano (R. Barthes "La camera chiara") che ci tocca e fa vibrare le corde dell'anima? Il punctum non è nell'universo tecnologico capace di mettere in funzione una nave altamente sofisticata e non è neppure nelle sequenze della diatriba politico-religiosa su chi abbia o meno il diritto di solcare l'altrove. Il punctum non è neanche nelle scene che ci riportano all'infanzia di Ellie ed al suo desiderio di conoscere l'Altro, sogno portato con sé sin da quando suo padre morì rendendola una bambina orfana. Il punctum è situato sull'altra sponda, dall'altre parte dell'immagine, oltre lo schermo/specchio dove l'al di qua diviene un altrove alieno ma fantasmagorico, ove le costellazioni colorate e i mari che si confondono col cielo non si "toccano" soltanto con lo sguardo, ma possono essere finalmente sfiorati con le dita. Toccare per conoscere, come fanno i non vedenti, è l'unico modo di scoprire il Dentro e il Fuori dell'immagine filmica: contemporaneamente.

21 agosto 2007

La realtà nel documentario

Sin dalle origini il documentario impone all’autore una scelta, un punto di vista, un modo di disporre il profilmico. L’unica distinzione possibile con la fiction potrebbe essere l’assenza di scenografie (e/o ricostruzioni di ambienti e luoghi) e di personaggi interpretati da attori professionisti e no. D’altro canto il cinema di “recitazione” (soprattutto con i film di avanguardia) non disdegna l’utilizzo di scene documentarie. Anzi a volte immagini naturalistiche, inserite in un film di fiction, contribuiscono ad ingigantire l’esplosione dell’onirico (come nel prologo de L’âge d’or [1930] di Buñuel, dove gli scorpioni che camminano tra le rocce pronti a morire del loro stesso veleno fanno da contrappunto ai banditi che muoiono spossati senza combattere, ancor prima dell’arrivo dei “maiorchini”) o del perturbante che può partire da una rappresentazione del “reale” per arrivare ad una rappresentazione fisica dell’Irreale (nel Nosferatu [1922] di Murnau sono ricreate atmosfere inquietanti che trascendono il “reale” restando attaccate alla realtà e utilizzando anche elementi documentaristici come la pianta carnivora o il polipo trasparente, metafore rispettivamente del vampiro che succhia il sangue e del fantasma­ che terrorizza). La storia del cinema documentario è la storia di un incontro-scontro, di un amore-orrore, col cinema di recitazione. Non si possono tracciare frontiere, segnare divisioni. Considerare il cinema documentario più “vero” o come “la realtà colta nel suo farsi” allontanerebbe dalla possibilità, affascinante, magica, misteriosa, che è la possibilità della mente dello spettatore di immaginare. L’immaginario non è la realtà, va oltre la realtà, è qualcosa di più.
L’esperienza nel documentario di Dziga Vertov come collaboratore del cinegiornale Kinonedelja gli è utile per elaborare la sua poetica: negazione dell’attore e negazione dell’elaborazione narrativa della realtà, affermazione dei fatti. Il cine-occhio (non il cinema di finzione o il cinema verità) deve analizzare criticamente la realtà mostrandone la complessità dei significati o l’incomprensibilità dei significanti: il caotico andirivieni di immagini, situazioni, eventi, avvenimenti. Con Čelovek s Kinoapparatom [L’uomo con la macchina da presa –1929] teoria estetica e pratica del documentario si fondono per dare vita ad un’opera in cui il cinema si interroga sul suo linguaggio. La mdp entra in campo colta nel suo rapporto-comunione col mondo e con la città. Se il mondo non è riducibile al linguaggio (il cinema di finzione e il documentario non sono il “reale”) allora il linguaggio sarà un mondo. La città, gli oggetti, i passanti saranno “creati” dalla mdp per essere proiettati sullo schermo. Il cine-occhio (protesi per vedere meglio, per conoscere e capire) è entrato nel quadro, si è autorappresentato; lo spettatore è dentro e fuori lo spettacolo. Essere cineocchio significa essere un uomo con la mdp. «Io sono un occhio, dirà Vertov, Un occhio meccanico e sono in costante movimento».
Nei documentari della scuola britannica fondata da Grierson (dirige nel 1929 l’unico suo lavoro, Drifters [Pescherecci]), si deve al contrario tenere conto della complessità della vita sociale, ma soprattutto, nel caos delle immagini riprese, si deve fare ordine nella mole infinita di informazioni per salvare quelle in grado di rendere un quadro razionale e critico della realtà. Fondamentale è quindi “la messa in scena della narrazione documentaria” (M.Grande). I materiali si collegano tramite il senso fino a comporre un “significato” globale, ossia fino a dare l’idea dell’importanza della vita sociale e del lavoro. Il documentario per Grierson non riguarda la sola descrizione del “reale”, ma soprattutto la sua elaborazione creativa. La drammaticità insita nel “reale”, nel mostrare i personaggi in lotta contro gli eventi, è talmente narrativa da non richiedere la manipolazione del regista. Anche Robert Flaherty prova orrore ad utilizzare i metodi classici del cinema di finzione, quali personaggi, recitazione, montaggio, poiché le riprese devono dare il senso di un incontro casuale con la realtà. Tutto deve essere il più “naturale “ possibile. Dopo Nanook of the Nord [1922], storia della vita quotidiana di un eschimese (mostrata come se si fosse fatta da sola), la sintesi delle componenti della sua arte si ha con Man of Aran [L’uomo di Aran, 1934] dove si compenetrano insieme attenzione ai fatti, documentarismo, rappresentazione lirica della natura. La vita dura di un pescatore delle isole Aran, e la sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, sono rese senza enfasi, con semplicità. Gli avvenimenti si susseguono senza ordine: la pesca del ragazzo e i pescatori che tornano a casa, le barche che vanno in mare per prendere uno squalo, la tempesta che minaccia di far annegare il padre. Ma questo documentarismo non è il cinegiornale d’attualità. La mdp non può garantire l’oggettività. Il cinema deve partecipare alla vita dell’uomo, deve diffondere l’autenticità delle sue azioni. Non oggettività ma lirismo. Consapevolezza quindi che la presenza della mdp modifica la realtà e il personaggio-attore deve essere cosciente della presenza della mdp. Non fiction (attore, montaggio, sceneggiatura), non cineocchio (oggetti, mondo, occhio meccanico), ma “cinema-verità” (protagonisti che interpretano se stessi, durata rappresentazione coincidente con durata realtà fenomenica).Pertanto, sin dalle sue origini, il documentario non si contrappone al film di finzione in base alla sua supposta superiorità riguardo alla rappresentazione del “reale”. Il concetto stesso di realismo è ambiguo e fuorviante. Roman Jakobson ha chiarito il concetto riferendosi alla pittura, ma il discorso potrebbe valere anche per il cinema: «Il carattere convenzionale, tradizionale della presentazione pittorica determina in larga misura il modo stesso di percepirla visualmente. A mano a mano che le tradizioni si accumulano, l’immagine pittorica diviene un ideogramma, una formula legata all’oggetto da un’associazione di contiguità: il riconoscimento è perciò immediato, ma noi non vediamo più il quadro. Il pittore innovatore deve vedere nell’oggetto una realtà che ieri non era vista e deve imporre una nuova forma alla percezione».

18 agosto 2007

Partita a quattro (Ernst Lubitsch, 1933)

La trama è il classico triangolo d’amore tra Gilda, George e Tom, una storia simile a tante altre (si pensi a Jules et Jim di Truffaut) ma che la commedia sofisticata americana non poteva affrontare, né analizzare. Il genere poteva permettersi comunque di trattare argomenti tanto scabrosi perché, pur rispettando le ferree regole dell’autocensura delle Major (codice Hays), riusciva, grazie alla sua innata ambiguità, a parlare allo spettatore, scuotendolo dal torpore di un falso perbenismo. La trama è la parte meno interessante (e che conta di meno nella commedia) mentre al contrario la commedia americana si determina attraverso il gioco con lo spettatore, nascondendo temi scabrosi sulla superficie delle immagini ed evidenziandoli attraverso il linguaggio che riesce a trasformare un profilmico scontato e noioso in un filmico dinamico e indeterminato. Così Partita a quattro gioca sull’ambiguità di un rapporto definito di amicizia, ma che invece esalta in ogni immagine il rapporto erotico e sessuale tra la donna e i due uomini. Il gioco degli sguardi dei protagonisti, le loro allusioni e il punto di vista adottato dall’autore determinano una narrazione apparentemente naturalistica e allo stesso tempo legata a scelte stilistiche che esaltano i gesti e la recitazione; mentre il récit e una luce “classica” (i protagonisti come fulcro diegetico ma anche iconico) evidenziano lo spirito paradossale di questo genere di film. Anche Partita a quattro, non potendo affrontare realisticamente l’esperienza di un ménage a tre, sfugge al determinato preferendo nascondere l’argomento nel paradosso e nell’evanescenza. In definitiva la labilità della trama non si esaurisce nel già visto, ma “di volta in volta diviene la ragione per guardare un film da diversi punti di vista e scoprire nuovi significati” (Bruno). Ecco allora che nonostante la superficie delle immagini contenga scene erotiche, il film mostra in pieno il suo pregnante erotismo sottolineato dalla recitazione effervescente della splendida (personaggio-attrice come vuole la commedia) Miriam Hopkins.

15 agosto 2007

Nosferatu il vampiro (Friedrich Wilhelm Murnau, 1922)

Nel Nosferatu di Murnau Reale e Fantastico si fondono nell’immaginario. Il film parte da situazioni reali, senza effetti di fantasia, ma è proprio l’incipit realistico che crea ansia, inquietudine. Lo spettatore rimane in attesa dell’evento catastrofico. Pur iniziando da situazioni naturalistiche (i mostri sono reali piante carnivore e polipi trasparenti come fantasmi), il film, attraverso la rappresentazione della realtà, incrina l’ombra del Reale stesso. È sufficiente una semplice increspatura dell’immagine (un’improvvisa luce che cambia l’aspetto delle cose ordinarie, che disturba il naturalismo delle immagini paventando l’improvviso abbrivo di orrore e mostruosità) per portarci nel regno del perturbante. E perturbante è tutto ciò che non è familiare, ciò che ci preoccupa e ci spaventa (Freud). Il perturbante nasce dall’implosione del reale, dall’attraversamento di linee d’ombra che disturbano la sicurezza di un mondo che vorremmo stabile. Perturbante come trasformazione? No, perché non si tratta di un mondo che si trasforma ma dell’intersecazione di due mondi paralleli (mi scuso per l’ossimoro). Il perturbante nasce dal mostro che fuoriesce improvvisamente dal quotidiano. Forse per questo sono d’accordo con Gide che avrebbe voluto un Nosferatu bello. Nel suo diario annota che lui avrebbe raffigurato Nosferatu come un giovane simpatico ed educato. Per Gide il mostro deve avere un aspetto normale, deve essere rassicurante mentre il mostruoso deve stare nascosto nel suo mondo fino al momento opportuno. Nosferatu il vampiro è innanzi tutto un film ellittico che richiede la partecipazione dello spettatore nel riempire queste ellissi, facendo leva sull’immaginario. Questi buchi sono soprattutto spaziali: costruzione dello spazio giocata sull’assenza, sulla profondità delle scenografie realistiche ma riprese da inquadrature aperte (punti di vista bizzarri, soprattutto dall’alto, per riprodurre questa assenza, questo vuoto dove i personaggi sono visti distanti). Siamo nel periodo del cinema espressionista tedesco e Murnau (come anche Laing) porterà questo periodo stilistico della cinematografia alla massima espressione. La capacità di Murnau consiste nel saper creare sequenze inquietanti che trascendono il reale restando attaccate alla realtà. Per fare questo utilizza atmosfere nebbiose infondendo una sensazione partecipativa a un mondo in cui tutto è come impastato, composto da una materia difficilmente penetrabile. Ma queste atmosfere inquietanti del porto di Brema, come del Castello del conte Orlok, sono riprese anche dall’immaginario romantico. Nosferatu è anche un eroe romantico, un eroe tragico che segue fino in fondo il suo destino. Il tema di Eros e Thanatos si sviluppa attraverso l’amore di Nosferatu per Ellen. Il perturbante scaturisce anche dai sentimenti prettamente umani del mostro. Lo sconvolgimento si ottiene dall’inserimento del mondo diabolico nelle pieghe del quotidiano. Il vampiro sa che rimanendo fino al mattino accanto ad Ellen morirà. Ellen sa che il bacio del vampiro le sarà letale. Film metafisico dove Amore e Morte, angelico e diabolico (Ellen e Nosferatu) si fondono insieme per rappresentare anche tutto ciò che non è stato detto e tutto ciò che non è stato visto, facendo leva sull’incommensurabile immaginario dello spettatore.

12 agosto 2007

Strategia del Ragno (Bernardo Bertolucci, 1970)

Film simbolico e onirico che si pronuncia come finction senza volere illudere con il naturalismo dei luoghi (l'assenza di effetti speciali), né con la verosimiglianza di una storia di tradimenti. Infatti siamo in un luogo denominato Tara, stesso nome della tenuta di Via col vento (finzione), ma anche contenitore di merci (film come contenitore vuoto) e tara ereditaria. Il film è stato girato a Sabbioneta, città ideale ricostruita e abbellita da Vespasiano Gonzaga tra il 1554 e il 1591, città artificiale dalle strade orizzontali con molti porticati, città quadrata, che ricorda i quadri di De Chirico, una città metafisica. L'arrivo di Athos Magnani jr. alla stazione di Tara rappresenta anche l'inizio dell'avventura del Cinema (Lumiére: L'arrivée d'un train en gare de La Ciotat) con la prima proiezione a pagamento. I segnali che il regista dissemina nell'incipit ci avvertono del gioco in atto, della finzione che sta per iniziare, dell'importanza della scrittura cinematografica sottolineata dai movimenti della macchina da presa. Bertolucci ci avverte della necessità di adottare uno sguardo utilizzando un piano sequenza tutto personale: la macchina da presa precede spesso il personaggio, indugia, lo supera, poi torna indietro per ritrovarlo; effettua sovente movimenti circolari (il cortile quadrato della casa di Draifa diventa circolare) deformando l'immagine e negando allo spettatore il gusto della prospettiva rinascimentale. Si direbbe che i rapporti, le identificazioni tra i personaggi siano il risultato del gioco continuo della cinepresa che acquisisce un ruolo primario di scrittura del film. L'identità tra Athos jr e Athos senior, tra il figlio e il padre partigiano ucciso dai compagni per tradimento, non viene acquisita dal ricordo o dai luoghi visitati dal figlio, non è neppure nell'ordine delle cose, nel racconto di Draifa o dei vecchi partigiani. L'identità tra i il senior e lo junior si realizza tutta nella grammatica del film, attraverso i movimenti di macchina, attraverso le strade, i vecchi del paese, i luoghi. Indici realistici quest'ultimi che vengono tuttavia denaturalizzati. Bertolucci fa sentire il naturalismo per poi inficiarlo, sempre apparentemente a favore del sogno. Interessante poter ritrovare nel film un'altra specificità del cinema che è quella di passare con disinvoltura dal presente al passato come se esistesse un'unica realtà temporale (es.: quando Draifa guardando fuori campo dice ad Athos Magnani junior: "Questa è l'ultima volta che vidi tuo padre", mentre alle sue spalle, intento a guardare dalla finestra, vediamo Athos Magnani senior). In questo caso il film è fuori dalla cronologia trattandosi di un racconto di idee, perché Strategia del ragno non è un film storico, né naturalistico o ideologico, anche se suggerisce la storia, l'ideologia e la natura confondendo lo spettatore. La tela del ragno sono i movimenti di macchina che deformano lo spazio e la logica spaziale (vedi il busto del padre nella piazza che volge sempre la stessa faccia al figlio Athos che gli sta girando intorno), è la perdita della cronologia e l'avvento imponente del tempo che domina sullo spazio. Per citare Deleuze, quando Draifa interagisce contemporaneamente con i due Athos siamo di fronte a un'immagine cristallo in cui l'immagine del presente si forma contemporaneamente all'immagine del passato che si conserva (non è il flash-back del cinema classico). Il reale si colloca fuori dell'immagine cristallo, impenetrabile ed irriducibile, può riprodursi diegeticamente attraverso il gusto dello spettatore, ma il cristallo no, il cristallo non ha una natura mentale o psicologica perché è un frammento di tempo allo stato puro (Deleuze: L'immagine-tempo).

9 agosto 2007

L'angelo sterminatore (Luis Buñuel, 1962)

Alcune persone dell'alta società, invitate ad un ricevimento in una sontuosa dimora in Calle de la Providencia (mentre i camerieri sono già fuggiti come da una nave che affonda), rimangono imprigionate per alcuni giorni nel salone pur avendo la facoltà di andarsene in qualsiasi momento. Ogni giorno che passa gli ospiti sono sempre più abbrutiti, si scapigliano, si picchiano, due innamorati si uccidono, un anziano signore muore d'infarto. Durante questi giorni ripetono innumerevoli volte i soliti gesti, pregano, parlano sottovoce, discutono. La sala è come una scatola magica ove tutto, se pur spostato e in movimento, è irrimediabilmente immobile. Nell'iterazione, nell'incessante ripetizione dei movimenti (degli attori e della macchina da presa) in fondo nulla deve essere mosso, perché la luce bianca sprigionata dalla tela simula un movimento che non c'è. La scatola magica deve riposizionarsi, ogni faccia del cubo di Rubik deve tornare di colore omogeneo. Quando la scatola magica si rimette in moto, quando dopo l'ennesimo spostamento, dopo l'ennesima frase pronunciata, gli invitati rimettono i mobili al loro posto e riprendono la stessa posizione cha avevano al momento di congedarsi dai loro ospiti, finalmente l'incantesimo svanisce, ogni cosa ritorna ad essere normale. Ma la morte ha mietuto le sue vittime: per tre invitati non ci sarà ritorno. Il film potrebbe essere considerato come la messa in scena della vita e dell'iterazione, della ripetizione dei soliti gesti, dei soliti sussurri: la messa in scena dell'immobilismo, allegoria di una classe sociale immobile (la borghesia) e del suo destino. Ma non andrebbe soltanto letto alla lettera, perché nell'Angelo sterminatore Buñuel fa coincidere il suo mondo con la messa in scena, senza rivelazioni, ricordandoci che è inutile ricercare la spiegazione di un mistero. Buñuel ha messo in scena l'orso solo perché gli piacevano gli orsi mentre le ripetizioni delle situazioni sono state inserite per allungare il film. Per Buñuel chiedere sempre una spiegazione è dovuto a secoli di cultura borghese e quando non si sa cosa spiegare si ricorre a Dio. Ma il film non finisce con la liberazione dei convitati: l'incantesimo adesso si ripropone in una chiesa e quando la messa è finita, quando il prete libera i fedeli dalla comunione con Dio, nessuno riesce ad uscire dal luogo sacro. Il film quindi non ha termine, riproponendo ancora una volta il dilemma del rapporto tra carne e spirito, diventando portatore del mistero dell'immagine cinematografica incarnata. L'angelo sterminatore è un corpo e come un corpo non è mai del tutto decifrabile, resiste all'interpretazione, resiste al linguaggio; tentare una spiegazione può solo intaccarne il suo più profondo senso. Non a caso l'immagine per antonomasia che definisce Buñuel potrebbe essere l'occhio tagliato nel Cane andaluso, mentre il suo luogo prediletto, il profilmico da lui più amato, potrebbe essere il castello (L'Âge d'or finisce in un castello). Buñuel colloca le sue cavie nel castello per studiarle, calando dall'alto situazioni "incomprensibili" solo per vederne le reazioni. Ciò che importa non è la scoperta di cosa il bisturi faccia emergere dal taglio, ciò che conta è partecipare, è sentire la consistenza di un corpo che si spezza, che scricchiola sotto i denti, proprio come l'ostia mangiata dal prete durante la messa nell'allegoria del corpo divorato.

6 agosto 2007

La macchina ammazzacattivi (Roberto Rossellini, 1948)

Celestino, semplice fotografo di paese (il film è stato girato a Maiori, sulla costiera a-malfitana) e devoto a Sant'Andrea, accorda ospitalità ad un povero viandante il quale gli insegna ad uccidere tutti i cattivi, fotografando l'immagine della persona prescelta. Scambiatolo per il suo Santo, Celestino inizia con successo a seguirne i consigli. La macchina ammazzacattivi è una commedia grottesca, sottovalutata dalla critica dell'epoca, e anche dal pubblico. Un film fuori dalle abituali coordinate del reale, che parte da un profilmico realistico, per poi costruire un discorso irreale, che diventa metafora per determinare il reale stesso. La foto è la memoria di un attimo arrestato nel tempo, e questo stabilisce una linea di unione tra fotografia e tempo, tra fotografia e morte. La macchina fotografica è strumento che dà la morte al reale, deformandolo e/o trasformandolo in qualcosa di diverso. Nella fotografia vi è la messa in mostra dell'Accaduto, di ciò che è andato irrimediabilmente perso e di cui l'immagine ne è particolare surrogato: immagine di qualcosa che non è e non è mai stato. Il Cinema invece mostra contemporaneamente l'Accaduto e l'Accadente, ossia illude che la "storia" narrata stia accadendo hic et nunc davanti ai nostri occhi (il proiettore), anche se in realtà è già accaduta (la pellicola); in questo contesto il cinema è una messa a morte di qualcosa. La metafora della macchina che uccide diventa il motivo per narrare una storia e il suo pretesto per l'accadimento non è la visione del Santo, ma una visione demoniaca (il viandante non è Sant'Andrea ma il demonio). L'inganno pertanto della realtà non appartiene alla visione miracolistica, ma a quella dell'incubo, al terrore (timore) di essere ingannati. La visione del viandante che sopraggiunge a scarnificare l'atto del vedere è una visione "vista" attraverso gli occhi di Celestino, attraverso quindi il timore del peccato. La macchina che uccide i cattivi non è che il terrore di appropriarsi, attraverso il cinema, di una visione del reale peccaminosa e non conforme al mondo così com'è stato codificato dal senso comune. Il film recupera solo in parte la struttura del cinema neorealistico (in particolare la trilogia della guerra - Paisà, Roma città aperta, Germania anno zero) orientandosi verso la messa in scena di situazioni vicine all'espressionismo dei film di Murnau e Laughton (deformazione del reale visto attraverso gli occhi di Celestino), anche se l'illusione onirica e la visione demoniaca (espressionismo) vengono mitigate da immagini nitide che mostrano una natura solare (costiera amalfitana) popolata dalla spontaneità e dall'improvvisazione dei suoi abitanti (commedia dell'arte).

3 agosto 2007

Dogville (Lars von Trier, 2003)

Le tecnologia digitale permette a von Trier un film dove gli attori sono tutti contempora-neamente in scena. La videocamera (impugnata dallo stesso regista) si sposta da un personaggio all’altro avvicinandosi ai volti degli attori, poi allontanandosi per piroettare in ogni direzione. Queste riprese sono tipiche dei suoi film, ma in Dogville lo spazio subisce una drastica metamorfosi: la scenografia viene ridotta all’essenziale, oggetti e luoghi scompaiono alla vista dello spettatore. La cittadina deve essere ricostruita direttamente nella mente dell’osservatore. Non esistono né case, né alberi, né panorami, ma ogni cosa è raccolta in uno spazio teatrale dove le case sono disegnate per terra come in una mappa. Rimangono solo alcuni mobili, la parte più alta di un campanile, un gruppo di rocce, un camioncino, un'auto e naturalmente gli attori che possono muoversi liberamente sul set. Il concetto stesso di set subisce una metamorfosi: adesso il set è ovunque (o, se si preferisce, non c’è più). L’attore non esce mai di scena, ma vi rimane anche quando non è al centro della ripresa; niente esce mai veramente di campo, perché lo spazio del film tradizionale viene letteralmente abolito per essere sostituito da uno spazio definitivo ove la videocamera galleggia, si muove, ondeggia. Il concetto stesso di immagine si afferma con forza a discapito del sintagma inteso come montaggio di immagini per creare uno spazio narrativo. Qui l’immagine occupa l’intera scena, somigliando al piano sequenza ininterrotto della vita vissuta. E come nella vita l’interno e l’esterno non sono che “eterna” esteriorità (e l’interno di noi stessi è “rinchiuso” in una dimensione psichica), in Dogville i concetti di Dentro e Fuori perdono di significato. Il fuori campo scompare perché ora non dobbiamo più immaginarci le forme e i colori di un fuori che è stato un dentro (esempio: un fiume osservato da un personaggio che il cinema classico prima o poi ci mostrerà e che, una volta mostrato, per convenzione continueremo a immaginare), ma dobbiamo ricostruire gli oggetti stessi, dobbiamo immaginarci (come a teatro, ma ancor più che a teatro) gli oggetti e i colori stessi. In questo film von Trier si avvicina agli stilemi e alla ricerca filmica di Godard: l’immagine prende il sopravvento relegando lo spazio in secondo piano. L’immagine diventa movimento del tempo (Deleuze: “L’immagine tempo”). La visione risulta in tal modo straniante, ma anche e soprattutto realistica: innanzitutto la recitazione continua degli attori deve essere maggiormente curata, l’attore non recita più una parte scomparendo nel Fuori, ma recita e improvvisa rimanendo nella Vita; inoltre la scomparsa degli oggetti (case, alberi, strade, fiori, ecc.) permette allo sguardo di bucare il Chiuso. Quando la videocamera riprende per le strade di Dogville la polizia che interroga i cittadini, sullo sfondo, nella casa priva di pareti di Chuck (Stellan Skarsgård), si consuma la violenza ai danni di Grace (Nicole Kidman) da parte di Chuck stesso. Nessuno “può vedere” quello che succede, perché per convenzione vi sono le pareti. Ma noi spettatori abbiamo facoltà di farlo (von Trier ci ha tolto il fuoricampo) e le intense emozioni che proviamo (repulsione, fastidio, angoscia) risultano amplificate dalla presenza di tutto il mondo che sta intorno alla “violenza” subita da Grace. L’abolizione dello spazio ha reso concreto e insopportabile lo svolgersi implacabile e inarrestabile del tempo. In questo caso specifico lo stupro di Grace diventa patrimonio pubblico sottolineando allo sguardo come tutt’intorno allo stupro vi sia un mondo che non vede o non vuol vedere