31 luglio 2007

Zabriskie Point (Michelangelo Antonioni, 1970)

Come una poesia che inizia con un volo: l'aereo da turismo che sfreccia nel vento pla-nando leggermente nell'aria calda della Valle della Morte, disturbando dall'alto il percorso di un'auto guidata da una ragazza. Un aereo, un'auto, un ragazzo, una ragazza: l'amore che sboccia tra Mark e Daria, tra lo studente e la segretaria, e che viene consumato a Zabriskie Point. Quando Mark viene ucciso quasi per caso dalla polizia, Daria vorrebbe vedere tutti gli oggetti simbolo del consumismo, come le ville dei benpensanti, esplodere per l'eternità. La prima volta che vidi il film, lo considerai un film politico sulla contestazione giovanile anni settanta in USA, un film contro il consumismo, criticato dai più, poco amato dai critici e odiato dai benpensanti americani (e anche da molti europei). Ma in realtà Zabriskie Point è come un sogno, una pausa nella lavorazione di un film, è il contrasto che scaturisce tra il ricordo di immagini lontane (scene di violenza magari viste in TV) e il desiderio di un amore esotico; è un gioco di immagini, il rapporto tra il montaggio placido e sospeso dei lunghi piani sequenza (tanto amati da Antonioni) e il ralenti delle esplosioni apocalittiche. In particolare la stupefacente sequenza finale (esplosioni di frigoriferi, oggetti di vita quotidiana, ville) girata al ralenti (precursore di tanti film contemporanei) suscita un senso di vertigine; il fallout di scatolette, auto, elettrodomestici ridotti in pezzi, obbliga lo sguardo a sostare sull'immagine, a contemplare i colori e le reliquie di un'epoca senza futuro. Ogni pezzo di reale che cola giù dallo schermo è un pezzo non ricostruibile, non assemblabile. La realtà si dissolve nell'immagine stessa ed è irrecuperabile. Il volo, l'amore nella Valle della Morte, l'esplosione producono quel senso in più (Edoardo Bruno) che va oltre il significato della storia, perché ci mostra il mistero che si cela dentro l'immagine, mostra la polisemia dell'effetto che suscita in chi la guarda. Proprio come una poesia.

Il settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1956)

Un film sulla morte, o meglio su cosa la morte significhi e sul mistero che si porta die-tro. Un film sul terrore di avere buttato via la propria vita nella vanagloria e nell’indifferenza verso il prossimo. Naturalmente la Morte non può dare nessuna risposta al Cavaliere Block che la interroga: nessuna certezza, nessuna manifestazione di Dio. Ma tra la fede ingenua e visionaria del saltimbanco Jof e l’ateismo beffardo dello scudiero Jöns si pone l’angoscia del dubbio, la domanda statica che cerca una certezza, qualunque essa sia. Innanzi al momento culminante, al momento in cui la Morte sta per vincere la partita a scacchi, nel momento in cui l'Agnello scioglie il settimo sigillo del libro di Dio (vedi l'Apocalisse di Giovanni), domina la pausa, l’immobilità della scena, l’angoscia quotidiana del guardarsi allo specchio (il tema dello specchio ritornerà in molti film di Bergman), domina lo spiegarsi del film tutto raccolto in questa pausa (la partita a scacchi) fino all'ultimo, ineluttabile atto (la Morte che danza sulla collina con Block e gli altri personaggi). Il film non si chiude con una risposta, con un risultato, qualunque esso sia, ma rimane aperto, come sospeso in una nebbia malsana tra i colori della vita e l’amara constatazione del nulla che bussa alla porta. L’artista non è capace di dare risposte, non è un venditore di certezze e di meraviglie o veggente inneggiante a lugubri vendette; l’artista può solo, col cavaliere deluso, sperare almeno di fare qualcosa di buono, costruire nel suo piccolo, un mondo tutto suo, creare il suo idioletto particolare, il proprio stile di artista e di uomo, formare la propria opera. Davanti all’angoscia dell’Aperto, al mondo sfuggente, all’immediato, al dubbio e alla sensazione di immobilità, solo l’arte può dare almeno una sconfitta, almeno un sapore, col suo “patto stretto con la morte” e con la sconfitta la fine. Il Settimo Sigillo è insieme patto con la Morte ma anche morte che conduce al mondo ritratto dall’opera (dal film). La morte è comunque il montaggio e la sequenza chiusa da una dissolvenza (almeno nel cinema classico). Bergman, oggi, ha montato la sua ultima scena, quella che tante volte si era immaginato nella creazione dei suoi straordinari film. Addio grande, incommensurabile uomo.

28 luglio 2007

Il quinto elemento (Luc Besson, 1997)

Il punto di fuga verso spazi immaginifici. La costante del cinema di Besson è il punto di fuga, quello che il Barocco cercò di elaborare verso spazi siderali, fuori dalla portata dell’occhio umano, ma ben dentro la mente umana: ciò a cui sfuggiva la “realtà”, ma a cui ricadeva la percezione della realtà. Così Il quinto elemento, e forse in maniera più evidente dei suoi film precedenti, se non altro perché qui la fantascienza crea quella possibilità in più, il genere funziona da pretesto, coinvolge la percezione oltre il “famigliare”, predispone ad accettare il surplus, l’animo si adatta, opponendo una minore resistenza, all’esplosione incoerente delle forme e dei colori. Si vive in tre dimensioni, i loculi abitati di una New York irriconoscibile (ma non tanto) si aprono verso l’esterno, sul vuoto che inghiotte il traffico cittadino sopra e sotto (le auto scorrono ad ogni livello della città, volando tra i grattacieli). L’alto dal punto di vista del loculo dove abita Korben Dallas (tassista sul punto di perdere la licenza) è nascosto dal traffico mentre il basso, sotto altro traffico (mezzi che brulicano come uno sciame caotico ma ordinato), protegge il suolo con una coltre di nebbia. Al suolo non si scorre, non c’è movimento; l’oscurità della nebbia immobilizza gli eventi, proteggendo la fuga del tassista e della ragazza-clone Leeloo, dea arrivata dal cielo per salvare il mondo. Ultima reliquie del Mondoshawan, sorta da una mano sopravvissuta all’esplosione dell’astronave giunta per aiutare la Terra contro il Male (una sorta di pianeta magmatico, oscuro, fagocitante), Leeloo è un punto di sutura: prima mano amorfa, mostro composto da una sofisticata sequenza di DNA, poi, in una dissolvenza miracolosa che solo il Cinema può regalarci, splendida dea dai capelli rossi, punto luminoso solo capace di unificare il materiale inerte (acqua, fuoco, aria, terra), frantumato, incomprensibile. Leeloo il movimento? La luce che sprigiona dal suo corpo, la bellezza del corpo di Leeloo (quinto elemento ossia beltà del movimento, fascino della luce che “scolpisce il tempo”?) sono sorti da un pezzo, un frammento di mondo. Un clone ricostruito dall’imperfezione degli umani che distrugge, unificando il materiale primario nella luce e nel movimento, l’oscurità delle dissolvenze, i punti morti, maligni, che attentano alla “storia”. Il racconto Terra sarà salvo ancora per cinquemila anni e il nero, la deissi che fagocita tutto, infinità, universo improponibile di senso, dovrà rimandare il suo avvento. La poesia come fiume inondante che rientra nel suo alveo non metterà in onda la sua autodistruzione. Che ci rimane allora? Leeloo e Korben Dallas che escono dai loro cloni (Leeloo impara a parlare e dalla afasia passa al logos, mentre Dallas impara ad essere eroe ordinario e non più tassista straordinario) inibendosi nei corpi di Bruce Willis e Milla Jovovich? Ci rimangono gli spazi eclatanti, le linee che saettano veloci verso l’infinito, le ricostruzioni computerizzate (fumetti elettronici?) che ricordano le scene d’angolo dei Bibiena (in particolare mi riferisco alla scena delle «Logge» del Didio Giuliano rappresentato a Piacenza nel 1678). In effetti l’esasperazione dell’effetto diagonale caro a Ferdinando Bibiena cattura lo smarrimento di uno spettatore incapace di adattarsi allo spazio magico della scena con due fuochi. In particolare nella scena citata, la dilatazione dello spazio barocco viene affidata ad un sottinteso: allo spettatore viene data la possibilità di immaginare altri spazi infiniti, mentre lo spazio visibile sul palcoscenico ne è una premessa. È la perfezione del Barocco. La visione risulta così razionale, non determinata dalle mutazioni di scena ideate dal Burnacini o dal Torelli dove dominano le grandi macchine. Il meraviglioso, l’effetto speciale (per usare un termine moderno) viene portato dai Bibiena dentro la mente dello spettatore, senza metamorfosi prodigiose, né macchinari ingegnosi, ma con un semplice effetto ottico (due fuochi laterali con angolo di palazzo nel centro della scena). L’infinito viene costruito dallo spettatore, diventa un fatto mentale. Besson costruisce questo infinito nella fuga dei materiali, nelle immagini del tempio isolato nel deserto (il punto di fuga delle due file di colonne del tempio è all’infinito, oltre la quinta di fondo, dove sono visibili, oltre lo spazio inscatolato, attraverso il buco della parete, la gradinata del tempio e le dune del deserto), come pure nelle immagini di una New York di trecento anni a venire, che esplode di punti di fuga: in alto, in profondità (le strade “aeree” che costeggiano i grattacieli e che portano lo sguardo nello smarrimento di uno spazio illimitato), ma soprattutto verso il basso (vedi la sequenza del “volo” di Leeloo che si getta come un uccello nelle fauci della città o quella della fuga quando Korben guida il taxi verso i piani bassi dei palazzi) dove le linee prospettiche puntano tutte verso più fuochi, saettano in un groviglio di cunicoli e ostacoli. La mente fatica a contenere tutta questa ridondanza di effetti. Eppure sono questi che sorreggono le immagini, la storia e i personaggi. Leeloo, fisicamente simile a tante donne di Besson (vedi Nikita o la ragazzina di Leon), donna potente ma fragile, fatica ad uscire dalla sua afasia, fatica ad esprimersi, non comunica con la parola, ma con la danza (lo scontro con i Mangalore) e con la pantomima (i brividi di freddo o i primi piani di un volto di bambina che scopre il mondo, l’amore e la sofferenza); Korben è l’archetipo dell’eroe assoluto, modesto nel sacrificio quotidiano (è un tassista che “spera” di non perdere punti sulla sua patente) ma eroe quando si tratta di lottare per la salvezza del mondo e per l’amore; Cornelius, strano prete, è un ibrido tra astrologo, cartomante e buddista del ventitreesimo secolo; Zorg, infine, è il prototipo del “cattivo”, adoratore del male assoluto, da cui non sprigiona un pizzico di dubbio. Sono personaggi da fumetti, essenze cartacee che non devono trasformarsi in esseri umani, o meglio, che non devono dare illusione di caratterizzazione psicologica. Il film è l’immagine di un sogno, un perdersi nell’infinito delle esplosioni dello sguardo, un vagare della mente verso l’invisibile dell’immagine: spazi e tempi infiniti (il 1912 in Egitto o i cinquemila anni di vita del quinto elemento, o il futuro del 23° secolo su Fhloston Paradise) che non si ricongiungono, che fuggono distanti, nell’impossibile dello smarrimento. Alla superficie, nel verosimile del fumetto è tutto reale, accettabile, tranquillizzante; ma all’interno, dove lo sguardo affonda, c’è l’impossibile della verità, c’è il dolce canto di Plavalaguna, aliena che ipnotizza per un attimo i mostri con la bellezza del canto della Lucia di Lammermoor di Donizetti.

25 luglio 2007

La morte corre sul fiume (Charles Laughton, 1955)

Unico film di Laughton, con una luce e un modo di vedere il reale che potrebbero essere defi-niti espressionisti. Il film parte da dati realistici: l’avventura di Pearl e John Harper, due bambini inseguiti da un criminale (il Reverendo Harry Powell) che ha ucciso il loro padre Ben per un tesoro nascosto. Ma la realtà viene deformata dal punto di vista dei piccoli (e non solo) che fuggono su una barca lungo il Mississippi. Questa deformazione del reale, dando un valore espressivo all’immagine, è caratteristica della sensibilità neo-barocca del film (come anche del Nosferatu di Murnau). Il fatto che il Pastore (l’assassino del padre) non dorma mai non è realistico, come non è realistico l’attraversamento del fiume o i villaggi incontrati durante il viaggio perché questo mondo viene attraversato dalla favola (vari animaletti, il gufo, ecc.). Interessante la costruzione delle ombre e in particolare l’ombra proiettata dal cappello del Pastore sulla parete della stanza dove si sono rifugiati i bambini. Tutti questi aspetti definiscono un universo onirico, un incubo (cui molti film seguenti saranno debitori). Solo nell’incubo si è sempre raggiunti, e nel sogno i mostri si materializzano, l’angoscia porta a percorrere spazi invalicabili, luoghi non misurabili, dimensioni illogiche. Nella realtà posso contare i piani di un palazzo, nel sogno so già quanti sono i piani del palazzo. La dimensione onirica, resa a meraviglia con gli stilemi propri dell’espressionismo, riproduce soltanto quello che (anche se da accadere) è già accaduto. È una riflessione sul cinema, dove lo spettacolo che si sviluppa attraverso la pellicola che scorre nel proiettore, sta accadendo davanti a nostri occhi, ma è al contempo già un prodotto chiuso, irripetibile, non trasformabile. La storia potrebbe essere definita un “Thriller visto attraverso gli occhi e l’immaginazione dei bambini”. Ma è tutto accaduto veramente o è un sogno partorito da una mente infantile? Un capolavoro del cinema di tutti i tempi; un film definito "opera polifonica" da Serge Daney .

22 luglio 2007

Vital (Shinya Tsukamoto, 2004)

Tra le immagini di Vital e la morte che si attualizza nel cadavere di Ryoko dissezionato dallo studente di medicina Hiroshi vi sono sorprendenti analogie. Anzi, le spoglie di Ryoko rappresentano la forma esemplare di immagine perché, come direbbe Blanchot, essa mette in evidenza la perdita graduale di realtà che il darsi dell’immagine comporta. L’immagine (ogni immagine) sottrae l’oggetto dall’uso quotidiano (ossia dall’anonimato dell’uso che ne fa il soggetto), rompe le relazioni di causa-effetto, relegandolo nel limbo irreale dell’arte. Carattere peculiare dell’immagine è l’inutilità, dal momento che nei suoi confronti non è consentito alcun rapporto di azione o comprensione. Tra parola (immagine) e cadavere vi è un’impressionante analogia: immagine e cadavere sono entrambi sottratti all’esistenza nel mondo. Questi difficili concetti espressi da Blanchot (L’infinito intrattenimento) risultano straordinariamente confermati e chiariti in Vital. Quando Hiroshi comincia a ricordare la sua storia d’amore con Ryoko, dissezionando il cadavere della sua amata deceduta nello stesso incidente che gli ha procurato un’amnesia, non fa altro che uscire dal mondo per entrare nel limbo gradevole e meravigliosamente perfetto dell’Altrove (notare le immagini “realisticamente” riprodotte da Tsukamoto), luogo ove incontra, conosce e ama la sua cara Ryoko. Per sottolineare la potenza del cadavere/immagine sulla mente dello spettatore i colori risultano fondamentali. Infatti l’Altrove (un non-luogo dove Hiroshi e Ryoko consumano il loro incontro spirituale) è reso con i colori naturali della “realtà”, perché l’immagine è tanto più ingannevole, tanto più illusoria, quanto più rappresenta, uccidendoli, gli oggetti e il mondo, proiettando il Falso, l’illusione di verità, nell’idea che ognuno di noi si è fatto (o si sta facendo) del mondo (diegesi). Quello che invece risulta essere la “realtà” di Vital, (ossia i luoghi della città peraltro appena intravista, la bottega del suocero, la casa dei genitori di Hiroshi, l’obitorio, la pioggia incessante), viene rappresentato con immagini virate in blu o nei colori caldi di un rosso autunnale. Le immagini che la mente percepisce come falsate, improbabili, sono invece il tentativo di impedire la morte degli oggetti relegandoli in un al di qua mistificato. Stupefacente l’immagine della pioggia che cola sui vetri vista attraverso l’ombra proiettata sul muro, che sembra staccarsi dalla parete colando su oggetti arrugginiti o sul cibo avariato: tutto virato in un bel blu elettrico. Le scene dell’obitorio, dove domina il bianco dei camici, o il crema delle piastrelle e degli organi, rappresentano una soglia, un portale, un varco di collegamento tra il reale di Vital (che Tsukamoto cerca di mistificare alterando gli oggetti con viraggi blu e rossi) e l’Altrove (non-luogo ove si consuma la morte degli oggetti rappresentati da immagini nitide e gradevoli). Ma in questa linea di confine ci sono sì gli studenti, e le loro storie (c’è la storia di Ikumi con i suoi rimorsi e la sua gelosia per l’Altrove frequentato da Hiroshi), ma c’è il cadavere di Ryoko quasi più rappresentato dai davinciani disegni anatomici di Hiroshi che dal suo essere riproduzione plastica di un corpo. Un film che ci regala un'emozione dopo l’altra.

19 luglio 2007

Tokyo-Ga (Wim Wenders, 1985)

È difficile rendere l’idea di un viaggio se non vi sono luoghi da visitare: un viaggio alla ricerca di qualcuno che non è mai presente al nostro sguardo. Documentare attraverso il ricordo degli altri senza mostrare gli oggetti, i luoghi, la città in cui ha vissuto. Documentare un viaggio alla ricerca di un uomo tramite quello che documentava.
Tokyo-ga: un documentario che racconta di un viaggio alla ricerca di Ozu, dove un mondo che non c’è più cede il passo al mondo attuale: il traffico, le vetrine, i giocatori di Pachinko, i monitor tv negli alberghi. Ciò che non esiste più (Ozu, il Giappone di una volta) viene mostrato attraverso ciò che rimane (oggetti, amici, città). Si tratta di mostrare l’inesistente attraverso l’esistente per scoprire che ciò che non esiste si opacizza nascondendo il mostrato stesso. Il mondo di Ozu, il fascino del passato che ha raccontato, è finito. E ciò che è stato risorge nei ricordi di Chishu Ryu (attore preferito di Ozu) e dell’operatore Yuharu Astuta che non ha più voluto lavorare con altri registi dopo la morte di Ozu. Nel Giappone tecnologico del dopo Ozu non c’è niente da raccontare. C’è soltanto il traffico, c'è la città, ci sono i giochi dei giapponesi, il mondo. Il cinema moderno può riflettere soltanto su se stesso e sull’impossibilità di raccontare, mentre lo sguardo di Ozu era capace di dare ordine in un mondo sempre più confuso. Adesso regna il vuoto. «Una tale rappresentazione della realtà, una tale arte non esistono più nel Cinema. Lo erano un tempo. Attualmente regna Mu, il Vuoto», ci racconta Wenders, commentando la visita al cimitero dov'è sepolto Ozu. La realtà invece non si può raccontare. Ognuno apprende da sé ciò che significa la percezione della realtà. «La realtà. Non c’è nozione più inutile e vuota nel contesto del Cinema».

16 luglio 2007

La Ricotta (Pier Paolo Pasolini, 1963)

Una riflessione sulla rappresentazione. Su cosa il Cinema riesca effettivamente a rap-presentare. Il “calvario” di Stracci, figurante “ladrone” di un film sulla passione di Cristo, è la sua corsa verso la morte e quindi verso la chiusura del senso. Il tentativo di sutura tra rappresentazione e realtà diventa impossibile, perché la corsa di Stracci per acquistare la ricotta o lo spogliarello di una figurante non possono raccordarsi alle deposizioni del Rosso Fiorentino o del Pontormo. In particolare, soffermandosi sulla Pietà del Pontormo (1525-1528), le sfumature di blu, i verdi quasi pastello, i rossi vivaci, i rosa che irradiano luce dalla pala della cappella Capponi in Firenze, non si “suturano” con il bianco e nero della vicenda di Stracci. La luce mentale della pittura e quella artificiale del cinema sono altro rispetto alla luce amorfa, casuale, imprevedibile della realtà.
Eppure bisogna affrontare il dolore che provoca l’ambiguità del testo e l’impossibilità di rappresentare la vita (ma se è una corsa verso la morte si può tentare). Quando il tableau-vivant della Pietà del Pontormo si spezza, quando Cristo cade e tutti si mettono a ridere, i colori per un attimo irradiano nella vita. Ecco! Questa è l’emozione che per un attimo ho provato: poter afferrare la vita osservandola dall’alto e congelarne il senso. Ma è stato un attimo.

13 luglio 2007

Orlando (Sally Potter, 1992)

Il volto di Tilda Swinton (ultima inquadratura di Orlando), seduta con la schiena poggiata al tronco di un albero mentre osserva un angelo sospeso sopra di lei, mi rammenta il concetto di fotogenia caro a Balázs (il volto umano nel Primo Piano assume la varietà del paesaggio). Ma qui il paesaggio/volto di Tilda/Orlando è anche il tempo trascorso: una vita di quattro secoli che invecchia di un giorno la diafana carnagione della Swinton. Un Primo Piano che ci porta fuori dal tempo e dallo spazio, dove il personaggio non è più individuabile. Nichilismo del volto terrorizzato dal suo stesso nulla: immagine-tempo (Deleuze).
Sembrerebbe un Primo Piano come tanti nel cinema (tempo, passato, il nulla, il movimento che cessa a vantaggio del tempo e il tempo che si dilata per quattro secoli raccolti in uno sguardo). Invece c’è di più. Improvvisamente lo sguardo di Orlando (nel sintagma osserva l’angelo in cielo e nell’immagine osserva il tempo) si volta verso la macchina da presa e mi guarda dentro. In questo modo, collegando fotogenia, immagine-tempo e memoria, scardina il verosimile, ciò che è pertinente e pregno di significato per lo spettatore. È un atto ermeneutico, dove ho provato sulla pelle il superamento di quella coerenza intima (G. della Volpe) che rende credibile anche l’impossibile.
Dopo lo sguardo della Swinton che penetra dentro l’anima ho provato un brivido: il volto di Orlando, ingigantito nel Primo Piano, è diventato incredibile e possibile.

10 luglio 2007

Mulholland Drive (David Lynch, 2001)

Mulholland Drive è la creazione di un decoupage e dei dubbi dello sceneggiatore, delle esitazioni del regista e delle pressioni della “mafia” hollywoodiana. È come vedere la sintesi di mille puntate di una telenovela, spezzoni di situazioni montate in infinite combinazioni: l’entusiasmo di una ragazza che giunge a Hollywood sperando di avere successo, l’amore lesbico di due attricette, il regista impegnato (con tanto di occhialini alla Godard) costretto ai compromessi dello star system, l’incidente stradale, gli omicidi di un killer, l’horror, la perdita della memoria, l’indagine, ecc. Le situazioni e le immagini sono quelle che vediamo tutti i giorni nei serial televisivi: poliziotti e sirene, le ville di Sunshine boulevard, una panoramica notturna su Los Angeles, la scritta “Hollywood” sulle colline. Ma se fosse tutto qui (come pensano non pochi critici), il film sarebbe senz’altro poca cosa, sarebbe appunto il solito “film sul film”, sarebbe la presa di coscienza del regista del fatto che oggi non c’è più niente da dire. Ma non è solo questo. Credo che Lynch, con Mulholland Drive, sia andato oltre lo studio, l’analisi, la descrizione e la costruzione di un film. Qui il messaggio non è di critica, di protesta o di ineluttabile crisi autoriale, ma è la certezza, il desiderio, la consapevolezza che l’artificio, la finzione abbiano ormai inondato la realtà, che il potere sia totalmente in mano allo spettatore. La labilità delle immagini e le loro pseudo-verità inducono i più a trasportare residui, spezzoni di situazioni “viste” al cinema, nella propria vita quotidiana, a trasportare i sogni nel reale (vedi il terrore del cliente del bar e il suo voler ricostruire nel “reale” una situazione onirica). All’inizio il cinema funziona, la storia si evolve nella ricerca dell’identità di Diana aiutata dalla biondina Betty, appena arrivata a Hollywood in cerca di successo. Chi è Diana, perché hanno tentato di ucciderla? L’indagine scorre (e intanto nasce l’amore tra le due) fino alla scoperta di un cadavere e fino all’incubo della chiave e del cubo che trasportano la storia nella sua assenza. Ma, a guardare bene, le immagini “straviste” sembrano quegli oggetti della vita quotidiana che non osserviamo mai, fin quando un giorno per caso, osservandoli, ci accorgiamo della loro mostruosità, della loro imprecisabile ovvietà. Lo “stravisto” non s’incunea nella storiella di Diane e Betty (loro metamorfosi in Camilla e Diane con transfert di personalità per cui Diane non è mai stata Diane ma è Betty la “vera” Diane), ma si attualizza nella chiave e nel cubo, simboli appunto dell’atto stesso del vedere. Aprendo quel cubo, Betty-Diane entrerà nella dimensione dell’ovvio (cioè Hollywood, star system, feste, registi, amori, tradimenti, suicidi), luogo in cui si smarrisce il senso dello scontro ineluttabile tra cinema e spettacolo (scrittura, teatro, vita). Già la prima avvisaglia della perdita si ha nel teatro dove le due amanti assistono impotenti allo svolgersi degli eventi (in un romanzo direi: “al dipanarsi dell’intreccio”), perché mentre nel teatro (che è altra forma di finzione) la rappresentazione non è mai prevedibile (anche se il presentatore non fa che ripetere che è tutto registrato, la cantante che canta in play-back si accascia a terra improvvisamente; ma era previsto o la sera dopo non accadrà?), nel cinema è tutto identico, già finito ancora prima di essere visto. La visione allora rimane isolata, impotente, univocamente collocata dentro lo sguardo dello spettatore, lo stesso seduto in un palco che osserva a distanza la rappresentazione dicendo alla fine: “Silenzio!”.
Il silenzio delle immagini diventa quindi quello che solo lo spettatore può ricostruire (o decostruire se preferisce) diventa la possibilità del testo di essere qualcos’altro. Questo percorso ermeneutico, ripreso bene dal titolo della 50a Biennale di Venezia (la dittatura dello spettatore) è quello che Lynch, da grande autore qual è, ha perfettamente individuato nel suo film: le infinite possibilità del testo, che si trasforma (o meglio ancora si deforma) attraverso e/o tramite la mente dello spettatore evoluto, non passivo ectoplasma che assorbe e sogna le ombre proiettate sullo schermo bianco, ma creatore-dio, assemblatore delle immagini in sé. All’autore/regista non rimane che allontanarsi nel suicidio reiterato, fuggendo dall’abbraccio della diegesi e della narratività che ingannano con uno sterile appagamento, dall’abbraccio di ilari gnomi/spettatori incapaci di progredire, vaghi distanti relitti che impediscono al testo di ridefinirsi ogni volta differente. Il senso apparente, ottuso, deve quindi svanire, eclissarsi, per lasciare emergere l’atto stesso del vedere. Roland Barthes in un suo famoso saggio descrive bene questa “evaporazione del senso” (La morte dell’Autore, 1967 – e anche se qui si tratta di scrittura, la citazione può essere riferita all’immagine): “Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di “decifrare” un testo diventa del tutto inutile. […] Nella scrittura molteplice […] tutto è da districare, ma nulla è da decifrare; […] la scrittura esprime costantemente un certo senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa procede sistematicamente a una sorta di “esonero” del senso.”
Siamo noi spettatori quindi che costruiamo e diamo vita all’episodio, alla “storia” di Diane-Betty e quello che abbiamo visto e dobbiamo ancora vedere (il suicidio è già avvenuto, il cadavere sul letto, visto da Betty e Diane è per ora solo un morituro) si completa nella nostra mente. L’Autore, alter ego del Lynch regista di successo, in Mulholland Drive, è già morto. Stasera assisteremo alla nascita dello spettatore.